La Comune di Parigi e l’autogoverno dei proletari

di Maria Grazia Meriggi, storica (Università degli Studi di Bergamo)*

 

150 anni fa nasceva la Comune di Parigi, prima esperienza di autogoverno proletario della storia contemporanea, durata esattamente due mesi e dieci giorni prima di essere duramente repressa nel sangue dal governo liberaldemocratico di Adolphe Thiers (la tradizione parla di oltre 30’000 morti, uno dei più grandi massacri di civili di sempre). 

 Per ricordare questo evento, spartiacque nella storia del socialismo, vi proponiamo il seguente articolo di Maria Grazia Meriggi pubblicato inizialmente dal periodico Sinistra sindacale.

 

 

 

In un saggio di ormai quarant’anni fa ma ancora attuale, il grande storico Georges Haupt distingueva il significato della Comune come simbolo e come esempio. Nessuno dei due aspetti coglie interamente la realtà sociale di quell’evento remoto che è al tempo stesso fine – della composizione di classe che l’ha promosso, delle rivoluzioni delle barricate e delle strade – e principio del mito che ancora si deve adempiere, dell’autogoverno dei proletari.

 

Il breve periodo di vita della Comune è stato accompagnato dalla guerra e dall’emergenza, e la Comune è stata schiacciata da una repressione di spaventosa violenza che ha decapitato un’intera generazione, e fatto varare leggi contro l’Internazionale (in Francia: marzo 1872) che hanno a lungo impedito e comunque ostacolato la circolazione di militanti da un paese all’altro, e limitato al massimo la discussione politica dei congressi operai che pure continuano.

 

La generazione dei militanti che nel corso del decennio successivo ricominciano a tessere relazioni fra società di mestiere, circoli operai, e ben presto borse e camere del lavoro, rimanda l’assalto al cielo al momento in cui questo mondo avesse raggiunto la massa critica per candidarlo al governo dell’economia e dello stato, dunque, in quel contesto, alla rivoluzione. C’è una cesura provocata dalla repressione fra i rivoluzionari della Comune e i “moderati” dei congrès ouvriers degli anni Settanta e Ottanta, che però si riconoscono in quanto operai e salariati, e un’altra cesura fra questi e coloro che costruiranno le grandi organizzazioni nazionali politiche e sindacali della cosiddetta II Internazionale. Ma un filo li lega, e il lavoro di nessuna di queste fasi e generazioni è stato inutile.

 

La repressione spaventosa esercitata dalla Repubblica moderata di Thiers non deve però nascondere le solidarietà che i comunardi hanno suscitato in un’opinione repubblicana e operaia che pure in qualche caso non aveva osato seguirli. Perché nella Comune si sono espressi anche il patriottismo e l’orgoglio nazionale – della nazione della grande Rivoluzione – della difesa del suolo di Parigi dai prussiani che né il I né il III Napoleone avevano saputo fermare.

 

Il programma della Comune deriva da quello della République démocratique et sociale del 1848. Il 20 aprile abolisce il lavoro notturno delle panetterie cercando di imporre tale misura con interventi diretti nei negozi. Il 16 emana un decreto per la requisizione delle fabbriche e manifatture abbandonate dai proprietari, assimilati così a disertori. Il decreto prevedeva di assegnarle a cooperative, indennizzando i proprietari. Vengono reintrodotte la giornata lavorativa di 10 ore e – anche questa è una vecchia rivendicazione del ’48 - l’elezione dei dirigenti. Vengono abolite le multe e trattenute sui salari nelle imprese, sia pubbliche sia private. Viene fissato un salario minimo per gli appalti pubblici, e sono soppressi gli uffici di collocamento privati, che salassavano gli operai, sostituiti da uffici municipali.

 

Sono, da una parte, rivendicazioni profondamente radicate nelle esigenze dei salariati: nonostante la scarsa presenza di grandi imprese, nella Francia di quei decenni si poteva già parlare in ogni senso di classe operaia. Dall’altra – si pensi al collocamento e agli appalti – sono rivendicazioni in cui riconosciamo richieste sindacali ancor oggi attuali: la discussione operaia novecentesca fa talvolta dimenticare che la precarietà è stata la condizione operaia normale almeno fino agli anni Dieci del Novecento, e il collocamento era una posta in gioco importante ieri come è tornata ad esserlo oggi.

 

Ma nella Comune si esprime ancora un mondo del lavoro che ha nel mestiere il suo orgoglio e la sua forza. Oggi tutti ricordano l’adesione alla Comune di Gustave Courbet per la rimozione – non la distruzione – della colonna Vendôme. Ma artisti, per la Comune, erano anche l’eccellente bronzista e dirigente sindacale Zéphirin Camélinat, o quel tagliapietre e scalpellino Perret, poi esiliato a Bruxelles, che sarà il padre di Auguste, l’architetto “poeta del cemento armato”.

 

La Comune è insieme espressione e ispirazione di un governo dal basso non solo perché diretto dal popolo “minuto” e dagli operai, ma perché radicato nell’esperienza locale. Che cosa ha reso dunque la Comune così minacciosa, oltre le sue intenzioni stesse e le sue azioni, e che cosa ne ha tuttavia permesso la reintegrazione nella leggenda repubblicana? Il tentativo di governare non solo in nome dei lavoratori ma attraverso di essi, disintegrando le strutture centralizzate del potere: questo è il merito che Marx le tributa.

 

Rosa Luxemburg nel 1916 scrisse che la “tomba della Comune” chiude una fase del movimento operaio e ne apre una nuova fase organizzativa. Ma che si può imparare dalle sconfitte alimentandosi da esse. Possiamo fare nostra questa sintesi.

 

 

 

*Fonte: Sinistra sindacale,

8 febbraio 2021.

Ripubblicato con il permesso della testata e dell’autrice.

Tratto da: