Il populismo nazional-liberale di Navalny non risponde ai problemi della società russa

di Yurii Colombo, corrispondente da Mosca

 

La recente ondata di manifestazioni anti-Putin in Russia ha riproposto l’attenzione per il blogger populista Alexey Navalny, oggi in prigione a Mosca dopo aver subito un misterioso tentativo di avvelenamento quest’estate in Siberia. 

 In questo articolo cercheremo di ricostruirne la biografia politica e tratteggiare le possibili dinamiche della situazione politica sulla Moscova nei prossimi mesi.

 

Navalny, 44 anni, muove i suoi primi passi nel mondo politico nei primi anni Duemila, prima come rappresentate dei piccoli azionisti di grandi gruppi come Gazprom e Lukoil e poi scalando i vertici dell’opposizione liberale di Yabloko di Viktor Yavlinsky, già vice-primo ministro in era gorbacioviana. Un partito per Navalny troppo compassato: il giovane blogger vuole una politica più aggressiva, più militante e costruita sull’uso professionale delle nuove tecnologie. Nel 2007 lascia Yabloko per fondare il Movimento nazional-democratico “Narod” (Popolo): un gruppo ambiguo in cui si agglutinano soprattutto ex militanti del partito nazional-bolscevico di Limonov. Controllo rigido della migrazione interna, Stato forte caratterizzano una forza politica che non decollerà anche perché quello spazio politico è ben presidiato dal Partito liberaldemocratico di Vladimir Zirininovsky.

 

Tre anni dopo, e siamo nel 2010, Navalny prende parte a “Russky Marsh” la manifestazione dell’estrema destra in cui si sprecano le bandiere nere con la celtica, le foto di Ivan Grozny e i cui partecipanti non si vergognano di dichiararsi antisemiti e omofobi. Ma con la candidatura a sindaco di Mosca, nel 2012 su consiglio dei suoi spin-doctor, Navalny come un camaleonte è in grado di mutar pelle e proporre un nuovo format politico in grado di intercettare l’elettorato giovanile della capitale, educato al liberalismo di stampo occidentale. Un riposizionamento che gli frutterà il 27,2% dei consensi.

 

Nel frattempo parteciperà, in prima fila, alle grandi manifestazioni contro i brogli delle elezioni presidenziali del 2011-2012. Il riflusso di quel movimento, concentrato soprattutto a Mosca e a San Pietroburgo, lo inducono a riflettere. Da allora inizia a costruire una propria macchina politica centralizzata che ruota interamente intorno alla sua persona e che si espande negli anni in oltre 60 provincie. Il nome del suo partito cambia spesso, più importanti sono le front organizations di cui la più importante è il “centro anti-corruzione” (che ha prodotto il recente film – oltre 100 milioni di visualizzazioni su YouTube – sull’ormai famosa residenza di Putin in Crimea) ma al cui centro c’è sempre e solamente il portale navalny.com. Non a caso quando viene escluso dalla corsa per le presidenziali del 2018 a causa di una condanna penale (un reato fiscale che molti osservatori sostengono sia stato fabbricato dal Fsb) preferisce non sostenere un qualche suo braccio destro o un altro candidato dell’opposizione ma chiamare al boicottaggio del voto.

 

È in questo periodo che mette a punto il suo programma politico che non ha mai voluto troppo pubblicizzare, temendo – come altri politici populisti in ascesa – i temi “divisivi”. Il suo piano economico per lo sviluppo della Russia è sin troppo semplice: aumento del salario minimo a 25 mila rubli al mese, aumento delle pensioni e dei servizi sociali dalla sanità all’istruzione. Da dove reperire queste risorse? Le ricette, neoliberali, non sono molto diverse da quelle attuate in occidente che si sono dimostrate disastrose per le classi subalterne: “Il nostro programma include un’ampia gamma di misure per liberare gli imprenditori dalla pressione della burocrazia, dei funzionari della sicurezza e dei monopoli. Stiamo implementando un programma per demonopolizzare l’economia e ridurre i prezzi. Ridurremo il numero di organismi di regolamentazione e ne liquideremo alcuni.”

 

Le sue bordate ovviamente sono dirette contro quella “rinazionalizzazione” dell’economia voluta da Putin – una sorta di bicefalo che riunisce capitalismo di Stato e turboliberismo nel mondo lavorativo – che ha rimesso sotto controllo statale tutti i settori strategici dell’economia comprese le banche e l’immobiliare. “In Russia ora c’è una sorta di capitalismo incomprensibile, in cui lo stato controlla più della metà dell’economia e domina gli uomini d’affari. Un tale sistema ostacola lo sviluppo del Paese” denuncia Navalny. Peccato però che buona parte degli oligarchi e degli uomini d’affari a cui si rivolge hanno prosperato sotto l’economia di “pianificazione comandata neoliberale” di Putin: sono ormai cento gli oligarchi miliardari (in dollari) in un paese dove la forbice della ricchezza è tornata ad essere quella dell’inizio del XX secolo.

 

L’uovo di Colombo per Navalny sarebbe un’ulteriore riduzione delle tasse – questa volta per il piccolo e medio business – in un paese dove esiste già un prelievo ridottissimo (flat tax al 13-15%). Un altro tassello fondamentale della sua amministrazione sarebbe il federalismo fiscale in un paese già federale ma dove troppe risorse finirebbero alla capitale: “Il nostro programma di riforma del bilancio prevede un aumento della quota di imposte e tasse trattenute nelle regioni”. Davvero troppo poco per risolvere i problemi di dipendenza dell’economia russa dalla produzione ed esportazione di idrocarburi (che rappresenta il 30% del PIL), dal cronico deficit di capitali e da una valuta fragile e volatile. Per non parlare di un mondo del lavoro in cui la precarietà, l’inesistenza di diritti e tutele, oltre che i bassi salari, sono la norma.

 

Ma ciò che rende il suo programma particolarmente insidioso per Putin sono le direttrici della politica estera. Navalny non ha fatto mai mistero di considerare avventurista la politica russa dal 2014 in poi in Ucraina. Più di una volta ha infatti sostenuto che se assumesse il potere chiuderebbe rapidamente il contenzioso nel Donbass e proporrebbe un nuovo referendum per decidere lo status giuridico internazionale della Crimea. E di voler puntare a un’integrazione con l’Unione europea. “La Russia dovrebbe tornare all’ideologia del partenariato strategico e dell’integrazione con i paesi dell’UE sulla base del concetto di ‘quattro spazi comuni’, individuando come obiettivo finale la creazione di una zona di libero scambio tra l’UE e l’EurAsEC” sostiene sempre nel suo programma politico.

 

Tuttavia sarebbe riduttivo pensare che chi si sta mobilitando oggi in Russia sostenga questo programma, anzi, spesso non lo conosce neppure. In una recente ricerca sociologica soltanto il 30% di chi scende in piazza si riconosce nelle posizioni del blogger moscovita. Nelle grandi città come Mosca e San Pietroburgo a mobilitarsi sono soprattutto i giovani che protestano contro una corruzione e un clientelismo asfissiante che ostruisce l’ascensore sociale e il conformismo culturale del regime. In provincia, soprattutto oltre gli Urali, le motivazioni sono diverse. Qui la stagnazione economica e la recessione seguita alla pandemia hanno portato settori significativi della popolazione sotto la soglia di povertà che in Russia significa un reddito mensile intorno ai 15 mila rubli (180 euro al cambio attuali). Non è un caso che a Irkusk e a Syvtyvkar (ma anche in altre città) i comunisti non solo hanno preso parte alle manifestazioni ma le hanno perfino dirette. ll segretario del partito comunista moscovita Valery Rashkin ha sostenuto apertamente le proteste dichiarando che “la gente sta scendendo in piazza per disperazione”, aggiungendo anche che “il muro della paura sta crollando, anche se il paese è rimasto impigliato nel filo spinato” della repressione. Secondo Rashkin, un 65enne cresciuto nell’apparato del Pcus e non certo un pericoloso estremista, “a fine gennaio si è creato una sorta di ‘spartiacque’ nella società” perché “l’attuale governo del paese sta impoverendo il popolo”.

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