Un processo alla Curva

di Francesco Bonsaver

 

In un'aula blindata sono comparsi tre tifosi dell'Ambri e uno del Losanna per i disordini provocati dai vodesi alla Valascia nel 2018. Inferiate, schieramento di poliziotti sulle gradinate d’accesso e impianto da controllo all’entrata in stile aeroporto. 

I passanti davanti a Palazzo di Giustizia lo scorso martedì, incuriositi, si chiedevano chi stessero mai processando. Mafia capitale a Lugano? 

 

No, a processo vi erano i temibili ultras, tre dell’Ambrì e uno del Losanna. A quest’ultimo e al suo legale è stato chiesto se volessero la scorta per arrivare a Palazzo di Giustizia, ma hanno declinato.

 

La polizia ha deciso di non lesinare nell’impiego di mezzi per il processo, a differenza di quanto successo ad Ambrì quel giorno. La scenografia ha una sua importanza. Anche l’operazione di polizia che ha portato in aula gli imputati, è stata condotta in grande stile. Irruzione all’alba in una quindicina di case, portati via davanti a moglie, figli o genitori, per poi essere interrogati per ore con tanto di prelievo del Dna. Per contro, agli indagati losannesi è bastato un semplice invito a presentarsi in polizia.

 

Eppure furono proprio loro, i tifosi losannesi, ad aver creato i disordini prima, durante e dopo la partita quella domenica pomeriggio del 14 gennaio 2018 alla Valascia, nell’orario prediletto da famiglie per assistere alla partita di hockey della squadra del cuore. Ed era proprio a difesa di quelle famiglie che gli ultras della Gioventù Biancoblu, il tifo organizzato della Curva sud, affermano di esser intervenuti per fermare l’invasione dei losannesi del rettilineo occupato da diverse famiglie con figlioli bardati di sciarpe al seguito. Ma andiamo con ordine.

 

Arrivati in un centinaio ad Ambrì, con tanto di ultras di altre squadre gemellate con cui condividono simpatie d’estrema destra, avvicinandosi alla pista i vodesi non credevano ai loro occhi quando videro che «il cancello divisorio, di solito sempre chiuso, era aperto. Alcuni di noi ne hanno approfittato per dirigersi verso i tifosi leventinesi» ha dichiarato in aula l’unico imputato della tifoseria vodese. E così sono iniziate le prime scaramucce. Non si capacitavano nemmeno dell’esiguo numero di agenti presenti, così pochi da consentirgli di forzare l’entrata in massa, evitando le perquisizioni.

 

Era una partita già considerata a rischio di scontri, per via dello storico gemellaggio tra la tifoseria losannese e quella luganese. Ma il rischio si era ulteriormente elevato quando nei giorni precedenti il delegato dei tifosi dell’Hockey club Ambrì Piotta aveva segnalato all’incaricato della polizia cantonale l’arrivo di un consistente e anomalo numero della tifoseria losannese. Segnalazione rimasta inascoltata. Ad accogliere il centinaio di ultras vodesi vi erano solo quindici agenti.

 

All’interno della pista, durante la partita, i losannesi han poi continuato a far quel che volevano, lanciando torce sul pubblico della tribuna, ustionando una signora. A fine partita, divelti i lucchetti del cancello separatorio, non hanno trovato resistenza nell’invadere il rettilineo, dove le famiglie son fuggite in preda al panico. A contrastare la furia devastatrice e ricacciare i vodesi nel loro settore ci ha pensato parte della Gioventù biancoblu. Dopo qualche minuto, all’interno della pista è intervenuta la polizia cantonale, incanalando poi la tifoseria vodese ai suoi pullman, facendoli ripartire senza alcun controllo d’identità.

 

Le immagini dei disordini hanno indignato l’opinione pubblica. “Basta con gli ultras!” ha tuonato l’indomani il capo dipartimento delle Istituzioni del Canton Ticino, Norman Gobbi, proponendo schedature nominali e riconoscimento facciale all'entrata di piste o stadi. Nessun accenno alla serie di manchevolezze da parte della polizia cantonale quel giorno. Nessuna chiarezza sul perché i vodesi abbiano potuto far quel che volevano.

 

Il disegno era uno solo, colpire e farla finita col tifo organizzato. La Gioventù biancoblu ne è convinta. Lo hanno ribadito la quarantina di loro che quel martedì ha preso libero dal lavoro per esser vicini agli imputati, rimanendo fuori dal Palazzo l’intera giornata. A processo c’erano i loro amici, ma sarebbe potuto toccare a ognuno di loro. Ne son certi. Sanno di esser spesso e volentieri criminalizzati in quanto gruppo, al di là di qualsiasi cosa facciano. Che raccolgano soldi per scuole per bambini di paesi in guerra o per migranti in condizioni disumane, poco importa. Sono ultras.

 

Qualcuno vorrebbe svuotare dall’umanità quei luoghi dell’aggregazione sociale festosa e a volte un tantino irruente, per farne un posto dove regni l’ordine assoluto, tutti in fila per tre come bravi soldati. “Non ci avrete mai come volete voi”, risponde la Gioventù biancoblu nei suoi comunicati.

 

Tifosi assiepati fuori dall’aula anche il giorno seguente, in attesa del verdetto. La giudice Francesca Verda-Chiocchetti ha condannato due tifosi dell’Ambrì a pene pecuniarie sospese per due anni, riconoscendoli colpevoli dei reati di sommossa, violenza o minaccia contro i funzionari e danneggiamento di un bidone della spazzatura. Pene più lievi della richiesta di carcerazione proposta dal Procuratore Nicola Respini, poiché nel suo apprezzamento la giudice ha considerato il contesto, pur non riconoscendo loro la motivazione di essere intervenuti a difesa degli altri spettatori. Il tifoso losannese è stato condannato pure lui a una pena pecuniaria, non sospesa in ragione di precedenti simili. Il quarto imputato, un tifoso biancoblu svizzero-tedesco, è stato invece prosciolto da tutte le accuse e risarcito con 9mila franchi per le spese legali e mille d’indennizzo per torto morale. Una piccola somma per una persona che a seguito della vicenda ha perso il lavoro, maestro di scuola elementare, vittima innocente della macchina di criminalizzazione.

 

«Ultras liberi» riecheggiava davanti a Palazzo a fine processo. Se la giustizia ordinaria li ha condannati, pur con pene lievi, sentono di aver la coscienza pulita «per aver fatto quel che andava fatto», certi che le famiglie abbiano apprezzato l’intervento a loro difesa.

 

«Continueremo a lottare - controcorrente e controtendenza - per la nostra libertà, per l’essere ultras, per non essere omologati, per la difesa di un mondo e di un modo di essere e di fare». Non li avranno proprio mai come (alcuni) li vorrebbero.

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