Israele-Palestina, l’ennesima pagina di sangue

di Michele Giorgio, corrispondente dal Medioriente

 

Gaza con le sue distruzioni, i morti, i bambini e ragazzi uccisi dai bombardamenti aerei e i suoi feriti è scomparsa quasi subito dalle prime pagine dei media internazionali. 

Tranne qualche rara eccezione tra cui doverosamente ricordiamo il New York Times e il quotidiano israeliano Haaretz che a fine maggio hanno pubblicato le foto dei 67 minori palestinesi uccisi durante l’escalation tra Israele e il movimento islamico Hamas.

 

Come se il cessate il fuoco avesse chiuso una pagina insanguinata di questo conflitto – oltre a 256 palestinesi, sono morti anche 10 israeliani e tre manovali stranieri colpiti da razzi sparati da Gaza - e il mondo fosse ora in attesa del prossimo round, tra qualche mese o tra qualche anno. Tutti o quasi si sono concentrati sulle vicende interne israeliane e sulla fine – almeno così sembrava a inizio giugno - della carriera politica di Benyamin Netanyahu rimasto premier per 12 anni consecutivi, grazie alla nascita un governo di coalizione composto da partiti di ogni colore politico diversi in tutto e uniti solo dalla volontà di mandare a casa il leader del Likud.

 

Un esecutivo che Netanyahu ha descritto come “di sinistra” ma che, al contrario, sarà dominato dalla destra che occupa gran parte dei suoi posti chiave, a cominciare dal gabinetto di sicurezza che decide questioni centrali come attacchi militari, misure nei territori palestinesi occupati, raid delle forze armate contro paesi nemici (Iran, Siria e Libano). E che include esponenti della destra radicale, come di Avigdor Lieberman, noto per le sue posizioni ostili verso la minoranza araba in Israele. Ma è proprio il premier Naftali Bennett a rappresentare l’anima più oltranzista del governo di cui si attendeva la nascita. Nazionalista religioso, con posizioni molto rigide in politica estera e nei confronti dei palestinesi, Bennett è un punto di riferimento per i coloni israeliani nella Cisgiordania occupata ed esclude categoricamente, anche per motivi religiosi, che “gli arabi” possano esercitare la sovranità anche solo su uno spicco della Palestina storica, che lui considera Eretz Israel, la biblica terra di Israele. I centristi di Blu Bianco, i Laburisti e il Meretz (sinistra sionista), formazioni con pochi deputati alla Knesset, non reciteranno un ruolo di primo piano nel futuro governo. Con questo nuovo esecutivo è arduo immaginare politiche israeliane diverse da quelle attuate da Netanyahu nei confronti dei palestinesi sotto occupazione militare, malgrado l’intenzione espressa dall’Amministrazione Biden di rilanciare la soluzione a Due Stati, Israele e Palestina.

 

Gaza subito dimenticata o ricordata solo per i termini del cessate il fuoco mediati dall’Egitto. Eppure i dati degli attacchi aerei sono drammatici, così come lo furono quelli del 2014 al termine dell’offensiva israeliana “Margine Protettivo”. Secondo i dati raccolti dall’Ufficio dell’Alto Commissario per i diritti umani (OHCHR), fino al 27 maggio sono stati uccisi a Gaza 256 palestinesi, tra cui 66 bambini e 40 donne. Quasi 2.000 i feriti - inclusi 600 bambini e 400 donne - alcuni dei quali hanno subito gravi lesioni e soffriranno di disabilità che richiederanno una lunga riabilitazione. I media locali hanno riferito di nove famiglie che hanno avuto parecchi dei loro membri uccisi. Spicca la Al Kolak con i suoi 22 morti (non pochi dei quali bambini) in raid aereo su tre palazzine in via Wahda, in una zona residenziale del capoluogo Gaza city, che ha ucciso 49 persone. Israele ha spiegato i suoi attacchi come finalizzati a distruggere le infrastrutture operative di Hamas e la rete di gallerie sotterranee costruita dal movimento islamico. Ma restano un mistero, oltre a quello alle tre palazzine in via Wahda, gli attacchi contro gli edifici del ministero della salute, del laboratorio che processa i tamponi-Covid e la sede della Ong statunitense PCRF che garantisce cure mediche specialistiche a bambini gravemente ammalati. Così come quello che ha distrutto tre librerie nei pressi della zona universitaria.

 

Al culmine dell’escalation, 113.000 sfollati hanno cercato rifugio e protezione nelle scuole dell’Unrwa (Onu). Questo numero è poi sceso a circa 8.500 persone, principalmente quelle le cui case sono state distrutte o danneggiate al punto da essere inabitabili. Secondo le autorità di Gaza, oltre 2.000 alloggi sono stati completamente distrutti o gravemente danneggiati. Si stima che 15.000 unità abitative abbiano subito danni, così come infrastrutture idriche e igieniche, 58 strutture educative, nove ospedali e 19 centri di assistenza sanitaria di base. I danni causati dai bombardamenti israeliani hanno esacerbato i problemi di Gaza e aggravato il deficit energetico, provocando una diminuzione dell’acqua potabile e del trattamento delle acque reflue e con interruzioni giornaliere della corrente elettrica di 18-20 ore. Mentre scrivevano questo articolo, le squadre di lavoro dei vari comuni di Gaza continuavano a riaprire strade, a rimuovere le macerie e a riparare le reti idriche, fognarie ed elettriche. Tuttavia, la mancanza di pezzi di ricambio e altri macchinari essenziali, nonché l’entità dei danni e il timore di bombe e missili inesplosi, rallentavano i lavori. Preoccupante è anche la situazione di quasi 600.000 bambini la cui istruzione è stata sospesa durante i bombardamenti, dopo che erano stati già interrotti più volte a causa delle restrizioni per il Covid. Il sistema sanitario di Gaza, già sopraffatto dalla carenza cronica di farmaci, da attrezzature inadeguate e dalla pandemia, ora lotta per assistere i feriti.

 

Il blocco israeliano di Gaza resta in vigore nonostante la situazione di emergenza. Il valico di Erez fino a qualche giorno fa era chiuso alla maggior parte dei palestinesi a Gaza, ad eccezione dei casi medici urgenti. Quello di Kerem Shalom era aperto per le merci e le autorità israeliane hanno permesso la pesca al largo della costa di Gaza ma solo fino a sei miglia nautiche.

 

La tensione intanto è sempre alta a Gerusalemme Est dove a inizio giugno si attendevano le decisioni della Corte Suprema israeliana relative ai ricorsi presentati dai palestinesi contro l’ordine di sgombero di 28 famiglie dalle loro case nel quartiere di Sheikh Jarrah, in cui vivono dagli anni ’50, per far posto a coloni israeliani che affermano di averle acquisite da ebrei proprietari prima del 1948 di terreni in quella zona. Un diritto che non viene riconosciuto alle tante famiglie palestinesi che possedevano abitazioni nella zona ebraica di Gerusalemme e che sono state confiscate dallo Stato di Israele con una legge ad hoc. Decine di altre famiglie palestinesi – per un totale di oltre 800 uomini, donne e bambini - rischiano di essere cacciate via dalle loro case nel quartiere di Batn al Hawa a Silwan, sempre nel settore Est di Gerusalemme. Anche in questo caso si parla di terreni di proprietà di ebrei prima del 1948. Silwan è composto da 12 quartieri e i palestinesi in sei di questi affrontano la minaccia di sgombero per far posto a coloni ed estremisti di destra israeliani. Cinque grandi famiglie - Dweik, Shweiki, Odeh, Rajabi e Rajabi - che possiedono 18 case sono a rischio immediato di sfratto. Oltre 80 famiglie hanno ricevuto ordini di sgombero per un totale di oltre 100 edifici situati a breve distanza dalla Spianata della moschea di Al Aqsa. Un luogo santo al centro di altre attività della destra religiosa israeliana che ne vorrebbe, secondo una teoria, la spartizione per ricostruirvi il Tempio.

 

Un elemento centrale dei focolai di tensione appiccati di recente è stato il coinvolgimento di cittadini palestinesi di Israele – chiamati arabo israeliani – nelle proteste per gli sgomberi minacciati a Sheikh Jarrah e Silwan e contro i bombardamenti su Gaza. Una novità che ha sorpreso le autorità dello Stato ebraico abituate negli ultimi anni a considerare questa fascia di popolazione (oltre il 20%) come avviata verso una silenziosa integrazione nello Stato ebraico mettendo da parte le discriminazioni alle quali è soggetta in tanti aspetti della vita quotidiana. Nelle cosiddette città miste – come Acri, Haifa, Ramle, Giaffa e soprattutto Lid (Lod) – abitanti ebrei ed arabi si sono scontrati violentemente facendo almeno tre morti. Partiti politici e mezzi d’informazione hanno rivolto accuse pesanti agli arabo israeliani invocando il ritorno alla coesistenza. “Rimpiangevano qualcosa che non è mai esistito” commenta l’opinionista Rami Yunis “i media ignorano le difficoltà della comunità palestinese. Gli israeliani non hanno idea che molti palestinesi a Lid abbiano dovuto costruire le loro case sulla propria terra senza i permessi necessari, perché le autorità si rifiutano di concedere quei permessi”. Le città binazionali, aggiunge, “sono descritte come un’oasi di convivenza e agli occhi del mainstream israeliano, città come Acre e Giaffa - dove gli israeliani vanno a fare la spesa e mangiano hummus nei ristoranti – sono una sorta di paradiso in cui si vive felici e contenti. Ma in un paese dove la discriminazione contro gli arabi non è mai stata superata, la coesistenza reale non è fattibile”. Sapendo poco o nulla dei loro vicini palestinesi, conclude Yunis, la maggior parte degli israeliani “ha sviluppato l’illusione collettiva che i cittadini palestinesi vivano una buona vita nello Stato ebraico e quindi dovrebbero essere grati di vivere in una democrazia. Piuttosto dovrebbero domandarsi le ragioni sociali ed economiche che hanno spinto i giovani palestinesi, dal Mediterraneo al fiume Giordano, a scendere in strada a protestare nelle scorse settimane”.

 

Dopo la nuova guerra a Gaza, con i suoi morti civili, e le minacce di sgomberi di famiglie palestinesi dalle loro case a Gerusalemme, molti prevedono che i palestinesi in Israele come nei Territori occupati non rimarranno in silenzio. E presto si capirà la linea che adotterà verso di loro il primo governo israeliano post Netanyahu.

Tratto da: