di Fabrizio Tonello, politologo (Università degli Studi di Padova)
Come dice il filosofo Timothy Snyder, “La storia non si ripete ma è istruttiva” quindi, anche se le analogie storiche sono uno strumento di analisi giustamente sospetto, un parallelo fra Joe Biden e Lyndon Johnson non sembra arbitrario.
Naturalmente, la storia del mondo attraverso la personalità di re, imperatori, presidenti e generali vittoriosi è più adatta ai docudrama che alla riflessione seria. Tuttavia, esistono dei momenti in cui un confronto può gettare luce su alcuni aspetti della situazione politica americana finora rimasti in ombra.
Biden e Johnson vengono entrambi da un’esperienza come vicepresidenti di uomini più giovani, più dinamici e più carismatici di loro. Sono entrambi democratici moderati, arrivati al vertice con una lunga carriera politica alle spalle: Biden ha passato 26 anni in Senato, Johnson ne passò 12 alla Camera e 12 al Senato. Entrambi furono scelti per trasmettere all’elettorato un’immagine di esperienza e di continuità in contrasto con il dinamismo e la novità di Obama (il primo afroamericano a candidarsi alla presidenza) e di Kennedy (il primo cattolico). Sia Johnson che Biden sono arrivati alla presidenza in seguito a un violento trauma politico: l’assassinio di John Kennedy nel 1963 nel caso del primo, l’elezione di Donald Trump nel 2016 per il secondo.
Entrambi sono stati candidati presidenziali dal profilo politico vago, radicalizzati poi dal contesto difficilissimo che si sono trovati ad affrontare: per Johnson la guerra in Vietnam, l’inflazione e la crisi razziale, per Biden la pandemia e le sue conseguenze socioeconomiche. Infine, entrambi si sono trovati ad affrontare un candidato di estrema destra nella competizione elettorale: Barry Goldwater nel 1964 per Johnson e Donald Trump nel 2016 per Biden. Due sfide da cui entrambi sono usciti vincitori: con un larghissimo margine Johnson (61% contro 38%), più ristretto Biden (51,3% contro 46,9%).
Nei primi cento giorni Biden non solo si è dedicato a smantellare l’eredità trumpiana con una raffica di Executive Orders, ma sembra voglia anche ripudiare il neocentrismo di Bill Clinton e Barack Obama. Non si è limitato a combattere con efficacia la pandemia ma mostra di voler ridurre le diseguaglianze e contrastare le gerarchie razziali con un progetto di più ampio respiro: costruire uno Stato più equo per tutti gli americani. Come ha scritto Maurizio Vaudagna sul Mulino “non un vecchio presidente restauratore, ma un inatteso leader trasformativo”. La stessa metamorfosi subita da Lyndon Johnson, che ripudiò i democratici segregazionisti del Sud e fece approvare il Voting Rights Act nel 1965, permettendo finalmente agli afroamericani di far pesare il loro voto nella politica americana, a cento anni dalla fine della guerra di Secessione.
Il primo successo di Biden è stato l’approvazione dell’American Rescue Plan, la legge federale di lotta contro il Sars-Cov-2. Il suo enorme importo, ben 1.900 miliardi di dollari ha permesso di avviare immediatamente il piano di vaccinazioni di massa al ritmo di oltre 3 milioni di dosi al giorno, e potenzialmente modifica il rapporto tra Stato, economia e società. Dimenticata l’ossessione per il debito federale, nelle sue prime conferenza stampa Biden ha ancora alzato il tiro, proponendo anche un piano di ricostruzione delle infrastrutture (porti, strade, ponti) che per le sue dimensioni, 2.300 miliardi di dollari, e le sue ambizioni, sembra voler superare gli storici risultati del New Deal di Franklin Delano Roosevelt. Infine, nel suo discorso sullo stato dell’Unione del 28 aprile ha annunciato un programma di aumenti di spesa a beneficio delle famiglie per 1.800 miliardi di dollari, da finanziare in parte con aumenti delle tasse sui miliardari.
Il nuovo presidente vuole agire rapidamente per raggiungere antichi obiettivi della sinistra democratica: nuovi posti di lavoro “verdi” per sostenere l’occupazione, aiuto ai redditi medio-bassi, lotta alla povertà, sostegno dei sindacati e rafforzamento dello Stato sociale. Il 20% più povero delle famiglie americane dovrebbe vedere il proprio reddito crescere sostanzialmente, benché l’amministrazione abbia rinunciato a portare il salario minimo federale da 7,5 a 15 dollari l’ora, a causa della resistenza di due senatori democratici conservatori. Le famiglie con un reddito fino a 150.000 dollari l’anno riceveranno contributi e crediti fiscali per la cura dei figli, per l’affitti e per procurarsi un’assicurazione sanitaria privata. Biden ha finora resistito, invece, all’idea sostenuta da Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez della totale cancellazione dei debiti studenteschi, un fardello che pesa sulle spalle di milioni di americani che hanno frequentato università private.
Un altro terreno su cui Biden sembra volersi muovere nella scia di Lyndon Johnson è quello della facilitazione dell’esercizio del voto, un tema diventato urgente a causa delle oltre 250 proposte dei repubblicani di leggi elettorali restrittive a livello locale (negli Stati Uniti sono gli stati ad amministrare le elezioni, a meno che il Congresso non legiferi in materia). Lo scopo, reso particolarmente evidente dalla legge approvata in Georgia in marzo, è quello di ridurre l’accesso al voto delle minoranze restringendo le possibilità di voto anticipato e postale, molto usate da afroamericani e ispanici. La legge della Georgia addirittura vieta di fornire acqua o cibo agli elettori in fila ai seggi in attesa di votare. Biden ha preso posizione molto energicamente contro la legge ma la sorte del testo approvato dalla Camera rimane incerta al Senato a causa dell’ostruzionismo, che richiede per essere superato 60 voti, cioè, oltre ai 50 democratici, 10 repubblicani: un risultato praticamente impossibile da raggiungere nell’attuale situazione di forte contrapposizione tra i due partiti.
Oggi la speranza dei democratici è di fare dell’equità sociale il tema dominante nei prossimi 18 mesi, per conquistare nuovi voti nelle elezioni di medio termine del 2022. Le due leggi sulla lotta all’epidemia e sulle infrastrutture per ora sono molto popolari, sostenute da tre quarti della popolazione, compreso il 60% degli elettori repubblicani. Giocando sull’immagine di un Biden “presidente dei poveri”, lui e Kamala Harris vanno in giro per il Paese a promuovere il programma nelle comunità che ne beneficiano, tentando di rendere definitive le misure di sostegno, e di neutralizzare la vocazione antidemocratica del trumpismo ancora forte nel partito repubblicano. Al contrario di ciò che era stata la prassi dell’amministrazione Obama, per ora i democratici sembrano aver deciso che “non si può essere timidi”.
Occorre ricordare che fra il 1970 e il 2020 si sono tenute 13 elezioni di metà mandato. In 11 di esse il partito che non controllava la Casa Bianca ha guadagnato seggi, in media 23. Solo in due casi, 1998 e 2002, il partito del presidente ha guadagnato un piccolo numero di seggi: quattro i democratici nel 1998 e sette i repubblicani nel 2002. In entrambi i casi si trattava di circostanze eccezionali: l’impeachment di Bill Clinton nel 1998 e l’invasione dell’Afghanistan e dell’Irak nel 2002. La maggioranza degli elettori scelse di sostenere il partito del presidente, al contrario di quanto avviene di solito.
Le oscillazioni sono ampie (23 seggi costituiscono circa il 5% della Camera, che ha 435 membri) e i rovesciamenti di maggioranza non sono rari: nel 1994 i repubblicani guadagnarono 54 seggi e nel 2010 addirittura 64; nel 2006 i democratici conquistarono 32 seggi in più e nel 2018 ben 42. La spiegazione più ovvia di questa tradizione politica è la minore partecipazione degli elettori negli anni in cui non ci sono candidati alla presidenza. Normalmente se ne avvantaggia il partito che si oppone alle politiche del presidente in carica, grazie a una maggiore mobilitazione dei suoi sostenitori per un desiderio di rivincita sulla sconfitta di due anni prima.
Inoltre, la redistribuzione dei seggi fra gli stati seguita al censimento del 2020 avvantaggia stati tradizionalmente repubblicani come Texas e Florida, mentre stati democratici come New York e California perdono un seggio ciascuno. Quindi le elezioni del 2022 si presentano particolarmente difficili per i democratici e il loro obiettivo è rafforzare la contropartita elettorale della marea di soldi pubblici che stanno distribuendo. Sul piano simbolico, occorre modificare l’immagine del partito democratico da partito delle minoranze, a partito dell’espansione economica, del pieno impiego e della tutela sociale. Ma sarà veramente possibile ripetere la vicenda degli anni Trenta, quando la politica del New Deal promosse una coalizione sociopolitica maggioritaria che dominò il Congresso fino agli anni Settanta?
Nel 1933 Roosevelt agiva con un Congresso in cui i Democratici superavano i Repubblicani alla Camera di tre a uno mentre al Senato, avevano una maggioranza di 59 seggi su 98. La situazione di Johnson era ancora più forte: dopo la sua schiacciante vittoria elettorale del 1964 i Democratici controllavano 68 seggi al Senato e ottenevano alla Camera, ben 295 seggi: una maggioranza più che confortevole. Al contrario, Biden deve far approvare il suo ambizioso programma con i voti di soli 50 senatori su 100 e un margine di soli tre voti alla Camera.
Quindi è del tutto possibile che la vocazione riformatrice di Biden si esaurisca presto per la resistenza dei repubblicani (che promettono una guerra politica all’ultimo sangue) e per le defezioni nei ranghi dei democratici in Senato, dove comunque occorrerebbe cancellare l’ostruzionismo per poter effettuare riforme in profondità. Per il momento i repubblicani sembrano a enfatizzare i temi culturali tradizionali, cercando di mantenere il sostegno degli evangelici e dei maschi bianchi delle zone rurali, oppure di cavalcare temi che avevano portato fortuna a Trump, come la “minaccia” dei migranti: sperando che Biden attenui i vincoli all’ingresso, negli ultimi mesi c’è stato un forte aumento degli immigrati che si presentano al confine col Messico, in particolare minori non accompagnati.
D’altra parte è anche possibile che Biden, 78 anni e mezzo secolo di vita politica alle spalle, sia arrivato ora all’appuntamento con il destino: trasformare profondamente un’America ingiusta e divisa, una “democrazia sfigurata” come l’ha definita qualche tempo fa Nadia Urbinati. Di fronte a lui stanno però gli stessi due pericoli che frenarono prima e distrussero poi la presidenza di Lyndon Johnson: l’inflazione, la criminalità e la guerra.
L’inflazione degli anni Sessanta era in realtà minima rispetto agli shock degli anni Settanta, provocati dalla moltiplicazione dei prezzi del petrolio nel 1973 e nel 1979. Oggi questo pericolo è molto minore: il petrolio è abbondante e a basso costo, mentre il fracking ha reso gli Stati Uniti praticamente autosufficienti, sia pure al prezzo di gravi danni ambientali.
E’ anche probabile che la struttura dell’economia mondiale sia diventata più indifferente all’inflazione: le banche centrali stanno stampando carta moneta come se fossero banconote del Monopoli già dal 2008 e il livello generale dei prezzi sembra stabile (negli anni scorsi si temeva addirittura la deflazione). Resta il fatto che l’esplosione del debito pubblico in tutti i paesi industrializzati è reale e che l’economia mondiale può avere delle brusche reazioni al minimo evento imprevisto, come il rapidissimo aumento del prezzo dei noli marittimi in occasione del blocco del canale di Suez causato da una nave portacontainer, in marzo. Se c’è una cosa di cui Biden ha bisogno è di un quadriennio di crescita economica e occupazionale senza intoppi.
Dopo anni di lenta discesa, la criminalità violenta era già salita leggermente nel 2019 (16.425 omicidi) ed è fortemente aumentata nel 2020: gli omicidi in una dozzina di grandi città sono aumentati di più del 50% (dati complessivi non sono ancora disponibili): Nello stesso tempo le proteste per la brutalità della polizia nei confronti delle minoranze etniche si sono intensificate (oltre 1.100 persone uccise da agenti l’anno scorso). Questo può creare un corto circuito politico e una reazione dell’opinione pubblica con la richiesta di leggi e sentenze più dure contro i criminali, un tema cavalcato con successo dalla destra per decenni.
Quando Johnson entrò in carica l’impegno americano in Vietnam era minimo: alcune decine di consiglieri militari e un certo numero di operazioni clandestine della CIA a sostegno del governo fantoccio di Saigon. Al termine del suo mandato, il 20 gennaio 1969, c’erano oltre 500.000 soldati americani in Vietnam, con un costo umano ed economico spaventoso. Un disastro che lo portò a rinunciare a un nuovo mandato nel 1968, consegnando la Casa Bianca a Richard Nixon, e soprattutto cancellò i suoi meriti nella costruzione di un Paese più equo e inclusivo.
Naturalmente, oggi non c’è nulla di simile: in Vietnam si fabbricano scarpe Nike, il muro di Berlino è crollato nel 1989, l’Unione Sovietica non esiste più e la Cina è il primo partner commerciale degli Stati Uniti. Le mosse di Biden sul piano internazionale conservano però un certo retrogusto di guerra fredda, in particolare l’aver definito “un killer” il leader russo Vladimir Putin e l’aver mandato al primo incontro di alto livello con i cinesi il Segretario di Stato Antony Blinken, estremamente aggressivo nei confronti di Pechino su molti dossier, da quello della minoranza etnica degli uiguri a quello di Hong Kong.
Dopo le bizzarrie dei quattro anni di Trump in politica estera, Biden sembra voler tornare a un approccio molto tradizionale per i democratici: buoni rapporti con gli alleati europei e asiatici, muso duro verso Mosca e Pechino. Nulla di irreparabile, per ora, ma storicamente le fasi di tensione internazionale non sono mai state favorevoli all’espansione della democrazia e della giustizia sociale all’interno.
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