50 anni del Manifesto

di Luciana Castellina

 

So che scrivendo del cinquantennale de Il manifesto su questa rivista – che pur è una pubblicazione svizzera – non parlo ad una distante e sconosciuta audience straniera, ma a una collettività di compagni che pur abitando oltrefrontiera hanno, in tantissimi, l’abitudine di leggere regolarmente questo giornale: lo provano i dati della distribuzione nel Canton Ticino di cui siamo fieri, e lo spiega la consonanza politica stabilita ormai da lunga data fra le nostre pubblicazioni.

Questa rara vicinanza che è cresciuta, sebbene ognuno operi in paesi che più diversi non potrebbero essere, mi evita di dover raccontare cosa è questo quotidiano. Scrivo dunque per condividere con voi la soddisfazione di aver durato già mezzo secolo – cosa su cui noi stessi fondatori dell’impresa non avremmo mai scommesso 50 anni fa – e per riflettere insieme sul suo significato attuale.

 

Se devo riassumere in poche parole le ragioni della sua eccezionale longevità direi: perché non siamo mai stati nostalgici, questa maledetta malattia che – ahimè – oggi colpisce tanta parte della sinistra. Nostalgici, cioè, perché ancora non ci si è fatti una ragione della sconfitta subita negli ultimi decenni e perciò chiusi nell’orizzonte del passato, pronti a incolpare delle sconfitte subite “il destino cinico e baro” – come tanto tempo fa disse Giuseppe Saragat, leader storico del partito socialdemocratico italiano (PSDI), che divenne Presidente della repubblica italiana ma non ebbe però mai la gioia di vedere il proprio partito superare nelle elezioni quelle percentuali che qui chiamiamo “da prefisso telefonico”. No, la principale qualità del Manifesto, credo sia proprio la sua capacità di continuare ad interrogarsi. (Romiti, per un lungo tempo presidente della Fiat e che non era proprio un nostro amico, ebbe a dire una volta che il Manifesto gli piaceva proprio perché aveva nel suo DNA la capacità di interrogarsi!) Così come, aggiungo per verità di cronaca, di litigare molto e poi però continuare a sentirsi – e a comportarsi – come fratelli e sorelle. E oggi di non guardare indietro per far rivivere il passato, bensì di provare a capire le diversità dell’oggi.

 

E’ appena uscito un bel libro su Lucio Magri, scritto da un giovane, Simone Oggionni, che ha un titolo molto illuminante. Dopo il nome di chi, con Rossana Rossanda, più di altri ha contribuito a definire l’identità politico-culturale del Manifesto è scritto: “non un post-comunista, ma un neo-comunista”. Lo proverebbe fra l’altro anche solo la relazione che Magri tenne a nome dell’intera “mozione 2” che si contrapponeva alla decisione di scioglimento del PCI più di 30 anni fa, quella firmata anche da Natta, Ingrao, Cossutta, e dalle femministe de partito. Quella relazione, che fu tenuta ad Arco di Trento nell’ultima assemblea prima del Congresso, fa impressione perché le sue indicazioni potrebbero esser state scritte oggi, tanto valide appaiono ancora. (Sui siti di distribuzione online, o su quello della manifestolibri, potete trovare un piccolo e-book, “La fine della cosa”, che abbiamo edito in occasione del centenario del PCI, che la contiene insieme agli interventi inediti di Ingrao, Cossutta e Garavini, poi primo segretario di Rifondazione Comunista.)

 

In realtà, è proprio a partire dalla sua capacità di anticipazione che si è costruita la fortuna de Il manifesto. Al centro del confronto che negli anni ’60 oppose la cosiddetta “area ingraiana” del PCI e l’ala conservatrice di Amendola – che è quella in cui affondano le nostre radici – non c’era solo il giudizio sull’Unione sovietica, come è stato superficialmente detto, ma il giudizio sui mutamenti intervenuti nel sistema capitalista, il famoso “neocapitalismo” (dico così per semplificare), che in Italia non era stato l’approdo di un prolungato processo, ma il risultato di un ammodernamento rapidissimo, delle forme fordiste della produzione e dei fenomeni sociali che l’accompagnarono: accelerato inurbamento, formazione di forti aggregazioni operaie. L’Italia, insomma, appariva ormai un paese dove la persistente arretratezza delle sue regioni meridionali si intrecciava con tutte le contraddizioni del capitalismo e per questo si imponeva un tipo di scontro sociale nuovo che, nelle fabbriche, aveva il suo epicentro. La destra comunista sottovalutò il cambiamento e ebbe paura della radicalizzazione dello scontro politico che produceva. Il ’68 e le straordinarie lotte operaie e studentesche che vi si innestarono e segnarono quasi un decennio non rientravano più nel quadro di una lotta “per lo sviluppo”, quale che sia, dell’Italietta arretrata, ma erano già una critica alla modernità capitalista in tutti i suoi aspetti.

 

Il lungo ‘68 italiano fu come sappiamo sconfitto dalla controffensiva che a partire dagli anni ’80 investì l’occidente, ma è certo che quel ritardo e quelle incertezze del PCI e di una parte del sindacato in Italia hanno pesato molto. Se ne parlo adesso non è per tornare a un dibattito di mezzo secolo fa, ma perché oggi assistiamo da parte della sinistra ad un analogo ritardo nel prendere atto, e dunque nel rispondere adeguatamente, del fenomeno del post-fordismo, con la sua drammatica frantumazione della produzione, lo smantellamento delle grandi fabbriche, il lavoro precario comandato dagli algoritmi. Questo processo galoppante non ha solo prodotto le drammatiche conseguenze sociali che sappiamo, ma si è accompagnato ad una erosione profonda del modello di democrazia entro cui l’occidente ha operato dal dopoguerra. Deteriorato il quadro, indebolito e manipolato il soggetto. Il manifesto quotidiano è – con tutti i difetti che ognuno può constatare – il solo punto di riferimento per far procedere una nuova analisi e far crescere una nuova strategia adeguate all’oggi. Per questo grazie ai compagni della redazione che hanno saputo farlo sopravvivere nonostante le difficilissime condizioni. Perché si incammini con analoga lucidità nel prossimo mezzo secolo serve tuttavia l’intelligenza, l’esperienza, l’impegno a combattere dei suoi lettori, cui chiediamo di non lasciarsi andare a paralizzanti nostalgie.

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