Case per anziani, Covid-19 ed il piccolo villaggio gallico

di Beppe Savary-Borioli*

 

Un quarto delle oltre 1500 case per anziani (CPA) attive in Svizzera ha risposto ad un’inchiesta di Tamedia sulla loro esperienza con il Covid-19. I risultati del sondaggio meritano una discussione. 

Con i loro 150’000 ospiti-abitanti (mi rifiuto di usare il termine ufficiale di “utente”), le CPA svizzere, come le strutture per persone anziani altrove, hanno pagato un contributo molto alto: la metà dei quasi 11’000 morti da Covid-19 in Svizzera è deceduta in una CPA, dove le restrizioni erano le più dure ed il personale curante ha subito delle situazioni tra le più difficili da gestire.

 

Quando il consigliere federale Alain Berset dichiarò all’inizio della pandemia che la protezione degli anziani e dei malati avrebbe avuto la priorità la più alta, il suo “Chef de cuisine”, l’onnisciente e vanitoso Dr. med. Daniel Koch dell’Ufficio federale della sanità pubblica (UFSP), annunciò delle direttive esplicite per le CPA. Arrivarono divieti ed ordinanze. Tante direzioni di CPA le giudicarono poco chiare, se non addirittura contradittorie, poco o non realizzabili, spesso con delle scadenze troppo corte per la loro messa in atto. La percezione diffusa nelle direzioni delle CPA era che le autorità si tutelassero dietro queste direttive per passare poi la “pepa tencia” della responsabilità verso il personale di cura, gli ospiti ed i loro famigliari.

 

In particolare, nella fase iniziale della pandemia mancava materiale di protezione, dalle mascherine igieniche ai grembiuli monouso e ai guanti. A mancare però era soprattutto il personale, durante la seconda ondata ancora più che nella prima, al punto da costringere le direzioni a prendere delle misure che Tamedia definisce “radicali”, cioè di far lavorare persone che avrebbero dovuto stare in quarantena o persino personale testato positivo. Non deve meravigliarci che il personale delle CPA sia stato indicato come principale sospetto importatore del virus, anche perché, spesso, non esisteva una strategia valida di testing. Al contrario degli ospedali, le CPA – che sovente hanno intrapreso tutto quello che era nelle loro possibilità per evitare di dover ospedalizzare i loro malati da Covid-19 – non hanno ricevuto il sostegno del personale messo a disposizione della Confederazione. Questa decisione del Consiglio Federale nella sessione invernale 2020 è stata approvata dal Parlamento malgrado qualche intervento contrario a favore delle CPA.

 

Le direzioni delle CPA hanno stimato che il prezzo da pagare per la sicurezza dei loro ospiti è stato molto, a volte troppo alto. C’è chi afferma che il danno delle misure imposte era superiore a quello causato dal Covid-19. L’isolamento forzato delle persone anziane, in particolare delle persone con demenza, ha causato dei frequenti stati di depressione, rifiuti d’alimentarsi, voglia di lasciarsi morire oppure stati d’irrequietudine o aggressività. I rituali di commiato per le persone decedute non erano possibili, anche la morte è avvenuta in isolamento e in solitudine. Il personale curante spesso era costretto a lavorare sopra la soglia di stress: il tempo per occuparsi degli ospiti, per elaborare il vissuto nel team o semplicemente per riposarsi è mancato durante lunghi periodi, con gravi e prolungate ripercussioni anche sulla vita privata. Non di rado ne è risultato l’abbandono della professione. Non riesco però a capire in nessun modo il fatto che al momento della pubblicazione dell'articolo solo una minoranza (meno del 30%) del personale curante nelle CPA citate da Tamedia si sia fatto vaccinare.

 

La maggior parte delle oltre 300 CPA che hanno risposto all’inchiesta o citate si situano nella Svizzera tedesca. Non sono a conoscenza di una ricerca simile per il Ticino, se non d’impressioni puntuali, a volte pure molto drammatiche. Ho vissuto da vicino – più da spettatore partecipativo che da vero attore – il caso del Centro Sociale Onsernonese (CSO), una CPA con due sedi e una sessantina di posti, un ambulatorio medico e un reparto di fisioterapia integrati. Questo piccolo villaggio gallico ha saputo resistere al Covid-19: nessuno degli ospiti si è ammalato, il personale è stato subito testato quando esisteva un minimo dubbio ed in caso di positività immediatamente messo in isolamento. Il direttore con la chiusura dell’istituto ha anticipato le direttive cantonali, molto precocemente, ma è stata gestita in maniera da permettere ancora dei contatti con il mondo esterno. Il reparto d’isolamento, previsto per eventuali malati da Covid-19, è servito da stazione di quarantena per chi entrava o rientrava in provenienza da un istituto ospedaliero o dal domicilio o chi aveva avuto dei contatti sospetti. Grazie al lavoro da sempre molto empatico di tutta l’equipe curante, che grazie alle misure intraprese risultava poco decimata, ma soprattutto grazie al impegno straordinario del servizio d’animazione ed alla gestione (coraggiosa per quanto possibile, prudente per quanto necessario), dei contatti con i famigliari, gli ospiti non si sono mai sentiti isolati e abbandonati. Si sono evitate così le reazioni nefaste che sarebbero risultate da un isolamento spinto. A gran parte del personale curante frontaliero per parecchio tempo è stato offerto un alloggio nella casa parrocchiale abbandonata dal curato.

 

I virus del Covid-19 non si sono di certo fermati all’entrata della Valle, proprio come ai tempi non lo fecero quelli dell’HIV, quando in Onsernone avevamo i primi morti da SIDA in contemporanea con Zurigo. Non è stata nemmeno “l’aria fine” o soltanto la “pura fortuna” che ha impedito la loro propagazione al CSO, ma è stato il lavoro della direzione e di tutta l’equipe medica ed infermieristica, che, con l’organizzazione improntata, disciplina (e un po’ di fortuna) hanno saputo tenere il CSO “Covid-19 free”. La gestione dei pazienti da Covid-19 in valle dalla parte dell’ambulatorio medico, se necessario in collaborazione con “l’ospedale Covid” di Locarno, ha contribuito enormemente ad evitare morti e decorsi prolungati. Le vaccinazioni anti-Covid-19 sono state eseguite il più presto possibile al CSO e in valle e la copertura vaccinale degli ospiti e del personale curante al CSO raggiunge il 95%.

 

Quello che è stato possibile nella a volte remota Onsernone avrebbe potuto esserlo anche altrove? Se fosse stato così, si sarebbe evitato molto dolore e sofferenza.

 

Che cosa deve insegnare l’esperienza “Covid-19” nelle CPA? In primis che le condizioni di lavoro e salariali del personale curante vanno assolutamente migliorate come lo esige l’iniziativa “Per cure infermieristiche forti”. Ma mostra anche quanto sia fondamentale creare le necessarie riserve di materiale e soprattutto di personale se si vogliono evitare ulteriori tragedie in caso di possibili future crisi simili. Il personale curante e dov’è possibile anche gli ospiti devono essere resi partecipi alla gestione dell’istituto. Per ottenere tutto questo è necessaria una maggior sindacalizzazione di tutto il personale delle CPA.

* Beppe Savary-Borioli

rappresentante del cantone

nel Consiglio di Fondazione

del CSO (Centro Sociale Onsernonese)

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