Il Confederalismo democratico, lo spettro che agita il Medio Oriente

di Francesco Bonsaver

 

Dei curdi si legge spesso che siano il popolo più numeroso senza uno Stato: è indubbiamente vero. 

Quel che pochi però sanno – tra cui ritroviamo svariati giornalisti – è che, al giorno d’oggi, una buona parte della popolazione curda, non ambisce più alla creazione di uno Stato curdo, ma alla realizzazione di una spiccata autonomia decisionale del territorio in cui possano insediarsi.

 

Un’aspirazione esplicitata nel concetto di “Confederalismo democratico” teorizzato da Abdullah Öcalan, leader riconosciuto da milioni di curdi. Lo scritto che egli ha improntato su quest’ultima questione, è la chiara dimostrazione del percorso che ha deciso di intraprendere.

 

Quando Ocalan – insieme ad altri compagni - partecipa alla fondazione del Partito dei Lavoratori Curdi (Pkk), il contesto internazionale degli anni settanta è ben diverso da quello attuale: all’epoca, nell’intero mondo, si assisteva ad un proliferare dei movimenti di decolonizzazione e di liberazione nazionale. Più che comprensibile, dunque, che la rivendicazione di uno stato nazione rientrasse nelle aspirazioni iniziali del movimento curdo. Il Pkk, nel suo programma, rivendica la creazione di un Kurdistan unificato, indipendente e socialista, ma gli anni passano e il pensiero si evolve.

 

La constatazione del fallimentare processo di liberazione popolare di gran parte dei movimenti arrivati al potere negli stati nazione che «in Medio Oriente han creato più problemi di quanti ne volessero risolvere», convinsero Öcalan della necessità di una rielaborazione della rivendicazione principale ambendo ad «una soluzione che consenta di evitare la trappola del nazionalismo e che possa meglio conformarsi alla situazione regionale» nella quale vivono i curdi. Ed è proprio all’inizio degli anni duemila che nasce il concetto di “Confederalismo Democratico” illustrato da Öcalan in un testo apposito.

 

«La rivendicazione di uno Stato-nazione risulta dagli interessi della classe dominante, della borghesia nascente, non del popolo. La costituzione di un nuovo stato-nazione perpetrerebbe l’ingiustizia riducendo ancor più la libertà dei popoli».

 

Al suo opposto, bisogna promuovere il Confederalismo democratico che - per dirla con le parole di Ocalan- «è una democrazia senza stato» poiché «gli stati sono fondati sul potere mentre le democrazie sono basate sul consenso collettivo». Una struttura, dunque, in cui non vi è spazio per la lotta verso alcuna forma di egemonia.

 

«Per sua natura, il Confederalismo democratico è aperto verso altri gruppi e fazioni politiche. È flessibile, multi-culturale, anti-monopolistico, ed orientate al consenso. L’ecologia e il femminismo sono i pilastri centrali» e la sua struttura si fonda nella creazione «di un livello operativo in cui tutti i tipi di gruppi sociali e politici, di comunità̀ religiose, o di tendenze intellettuali possono esprimersi direttamente in tutti i processi decisionali locali che possono essere chiamati democrazia partecipativa. Più forte la partecipazione, più potente sarà questo tipo di democrazia».

 

Pur elaborando un concetto nuovo, Ocalan rifugge dalle grandi dottrine: «non abbiamo bisogno di grandi teorie, ciò di cui abbiamo necessità è il voler dare espressione ai bisogni della società rafforzando l’autonomia degli attori sociali in modo strutturale e creando le condizioni per l’organizzazione della società nel suo insieme». Passando dalla teoria alla pratica, il Conferalismo democratico è stato applicato, per la prima volta in vasta scala, nel nord-est siriano, nelle terre abitate da una maggioranza curda condivisa con molte altre etnie (siriaci, arabi, assiri e turcomanni).

 

Nel 2013 – mentre nel resto della Siria la guerra civile imperversava ormai da due anni, favorita dal vuoto di potere creatosi dall’assenza fisica del regime siriano del clan Assad - fu proclamata l’Amministrazione autonoma della Siria del Nord-Est, comunemente conosciuta come Rojava. Nel solco del principio del Confederalismo democratico, non proclamarono lo Stato nazione con la scissione dalla Siria governato dalla dinastia Assad, ma l’autonomia regionale. Il modello di autonomia locale, basato sui principi anticapitalisti, femministi ed ecologisti, applica la partecipazione diretta in forma assembleare, dispiegata su più livelli: quartieri, villaggi, città e i tre Cantoni che compongono il Rojava, in cui si è prevista l’inclusione delle diverse etnie nella presa di decisione. Inoltre, la presidenza delle regioni, è condivisa egualmente da un uomo e da una donna.

 

Un simile esempio di modello innovativo sociale politico, non poteva essere tollerato dagli autoritari reggenti degli Stati nazione regionali o dai fanatici estremisti religiosi, per questo, il Rojava fu dunque militarmente attaccato dalle bande nere dello stato islamico e dal secondo esercito più attrezzato della Nato, lo Stato Turco, con due aggressioni militari, tacitamente appoggiate dalla Russia di Putin. Il regime centralizzato e dispotico del clan familiare Assad stava aspettando di concludere vittoriosamente la guerra civile in corso, per poi tentare di pacificare militarmente la regione autonoma del Rojava. Il pensiero e il concetto di Confederalismo democratico elaborato da Ocalan, influenzò la linea delle formazioni guerrigliere nate e cresciute nelle montagne del Kurdistan turco, intervenute più volte a difesa del Rojava in territorio siriano. Ci si ricorderà del contributo dato dai guerriglieri del Pkk nel liberare Kobane (e buona parte della Siria in seguito) dall’assedio delle bande nere islamiste o dell’intervento a sostegno della popolazione yazida in fuga dalle bande nere dello stato islamico.

 

Nei giorni in cui stiamo scrivendo queste righe, dal 24 aprile, lo Stato turco di Erdogan sta conducendo una vasta operazione militare contro la guerriglia nelle regioni montagnose del sud est turco e iracheno, zone abitate in grande maggioranza dalla popolazione curda.

 

Paradossalmente, fu proprio con Erdogan, che Ocalan era a un passo dalla conclusione di uno storico accordo sulla questione curda in Turchia: era il 2013, quando Erdogan ricopriva il ruolo di primo ministro e ambiva a diventare presidente dello stato turco, come puntualmente avvenne l’anno successivo. Lo stesso Ocalan, rinchiuso in condizioni disumane e di totale isolamento nel carcere dell’isola prigione di Imrali dopo l’arresto del 1999 in Kenya (a seguito anche del tradimento del governo allora guidato da D’Alema), annunciò il 21 marzo (capodanno curdo) 2013 il cessate il fuoco del Pkk, in vista di un accordo con il governo centrale turco. Poco tempo dopo, finalmente diventato presidente, Erdogan si rimangiò tutto e sferrò uno dei primi attacchi militari che seminarono morte nel sud-est turco, purtroppo, fu solo la prima volta. Su di lui, pensano le innumerevoli tragedie di perdite umane di cui il popolo curdo ha pagato un alto prezzo e, non solo, si tratta di uno spregevole dittatore che opprime qualsiasi parvenza democratica. Pensiamo solo che in Turchia, più di sessanta sindaci curdi sono stati arrestati e il controllo delle municipalità assegnato a commissari fiduciari del governo turco. Migliaia di dirigenti e militanti del partito Partito Democratico dei Popoli (Hdp) formazione che unisce le forze curde e di sinistra del Paese, votato nel 2018 da sei milioni di elettori ottenendo 67 seggi al Parlamento), sono in carcere. In questi giorni si sta celebrando il processo farsa contro 108 dirigenti Hdp, imputati nel ‘Processo Kobane’ per aver sostenuto e organizzato le proteste contro l’assedio della città da parte di ISIS nel 2014.

 

L’Unione europea (e la Svizzera) avrebbe ben altri motivi per indignarsi di Erdogan per lo sgarbo del “divano” riservato alla sua commissaria Ursula Von der Leyen, per quanto indicatore della sua considerazione del mondo femminile. Erdogan non solo è un essere spregevole, ma un assassino.

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