“Da Oriente viene la luce del sole”

di Damiano Bardelli

 

Storia del Partito operaio e contadino ticinese. Il piccolo Ticino non è mai stato un terreno fertile per l’ideale comunista, un po’ per l’assenza dell’humus necessario (una consistente classe operaia indigena) e un po’ per le condizioni climatiche avverse (forte anticomunismo della società civile, alimentato dalla Chiesa, dal padronato e dai partiti storici).

Eppure il movimento comunista fa parte della vita politica del nostro cantone da quasi un secolo. Il timido germoglio del primo Partito comunista ticinese (PCT), fondato verso la metà degli anni ’20, ebbe certo vita breve: venne infatti sradicato dalle autorità federali nel 1940, in un clima di marcata deferenza nei confronti delle forze dell’Asse. Ma dalla fondazione del Partito operaio e contadino ticinese (POCT) nel 1944, il comunismo ticinese ha preso pian piano la forma di una quercia bonsai: piccola, quasi insignificante rispetto agli alberi che le stanno attorno, ma con solide radici.

 

Lo storico Tobia Bernardi, docente presso il Liceo di Mendrisio, ricostruisce la cruciale fase di radicamento del POCT in questo studio pubblicato lo scorso anno presso la Fondazione Pellegrini Canevascini, frutto della sua tesi di laurea sostenuta all’Università di Friburgo nel 2015. L’opera, risultato di un solido quanto ammirevole lavoro di ricostruzione basato su fondi d’archivio eterogenei e sparpagliati in diverse istituzioni, colma un’evidente lacuna storiografica e fornisce così una base fondamentale per qualsiasi ricerca ulteriore sul comunismo ticinese. La storiografia si è infatti sin qui concentrata quasi esclusivamente sul primo PCT, mentre il POCT e le sue successive denominazioni (Partito del Lavoro dal 1963, Partito Comunista dal 2007) sono apparsi per lo più in modo collaterale in studi dedicati al Partito socialista ticinese (PST) e al Partito socialista autonomo (PSA).

 

Dopo aver riassunto la travagliata quanto effimera esistenza del PCT, il libro si sviluppa attorno a due momenti principali: quello della nascita e dei primi passi del POCT nel secondo dopoguerra, e quello della sua istituzionalizzazione e consolidamento nei difficili anni ’50. Nato in clandestinità negli ultimi mesi della seconda guerra mondiale, all’inizio della sua esistenza il POCT beneficia di un contesto relativamente favorevole all’ideale comunista. Il ruolo centrale svolto dall’Unione sovietica nella sconfitta del nazifascismo alimenta in tutta Europa un marcato entusiasmo per il socialismo e il comunismo, e il Ticino non fa eccezione. Dopo un’entrata in scena tutto sommato notevole, con l’attiva partecipazione dei comunisti a iniziative come la campagna per l’epurazione dei politici e funzionari con simpatie nazifasciste, il POCT non riesce tuttavia a capitalizzare questo slancio iniziale. Con l’inizio della guerra fredda, il partito perde in pochi anni quasi la metà dei suoi aderenti e simpatizzanti, trovandosi così relegato ad un ruolo marginale sulla scena politica locale già all’inizio degli anni ’50, in una posizione di subalternità rispetto al PST.

 

Il clima di forte anticomunismo degli anni ’50 mette poi a dura prova l’esistenza del POCT. I militanti del partito si trovano sotto la costante (quanto maldestra) sorveglianza degli agenti di polizia locale, sguinzagliati al loro seguito dalla famigerata polizia politica federale che li considera come una minaccia esistenziale per il paese malgrado il loro numero esiguo e la loro prassi essenzialmente riformista. Al contempo, il partito si trova escluso dalla comunità partitica ticinese: non solo perde i suoi due granconsiglieri nel 1951, e con essi la sua voce nelle istituzioni, ma tutti gli altri partiti gli fanno terra bruciata attorno. Oltre alla prevedibile ostilità dei conservatori, il POCT viene guardato con diffidenza anche dai liberali e dai socialisti, allora uniti nell’intesa di sinistra. Persino i sindacati, legati più o meno organicamente al PST, si adoperano per mantenere ai margini i militanti comunisti. Il POCT sopravvive a questo clima difficile investendo le sue esigue risorse nell’organizzazione del partito e nella fidelizzazione dei militanti, “ghettizzandosi” nelle sue convinzioni filo-sovietiche ma gettando le basi per un ritorno del partito nelle istituzioni nei più favorevoli anni ’60 e ’70, marcati dalla “concorrenza collaborativa” con il PSA (al riguardo, si veda l’interessante saggio di Bernardi pubblicato ne Il Cantonetto, “Il Partito ticinese del Lavoro di fronte alla nascita e al consolidamento del Partito Socialista Autonomo (1969-1983)”, 2016).

 

Oltre a ricostruire gli eventi che hanno marcato la storia del POCT, Bernardi offre anche una preziosa analisi della composizione sociale del partito (arricchito da alcuni cenni biografici sui principali militanti comunisti ticinesi) e soprattutto offre un primo sguardo su un cantiere di ricerca che per il momento non ha ricevuto l’attenzione che merita: quello della sorveglianza dei militanti socialisti e comunisti da parte delle autorità svizzere e ticinesi. La prassi antidemocratica sostenuta e incoraggiata dalle autorità federali durante la guerra fredda resta relativamente poco studiata malgrado gli abbondanti fondi documentari disponibili al riguardo. Bernardi, che utilizza i documenti disponibili agli Archivi federali principalmente per ricostruire la composizione e l’attività del POCT, solleva il velo che continua in parte a celare questa pagina nera della storia nazionale, offrendo una prima ricostruzione delle pratiche seguite dalle autorità per tenere sotto sorveglianza il comunismo ticinese. Non resta che sperare che questo libro possa stimolare ulteriori ricerche sul tema.

 

L’interesse dell’opera di Bernardi va tuttavia ben al di là del sapere specialistico e dei suoi contributi alla storiografia sulla vita politica ticinese. Le vicissitudini vissute dal POCT nella sua fase di nascita e consolidamento, le relazioni dei comunisti ticinesi con le istituzioni e gli altri partiti, illuminano le dinamiche attuali della sinistra ticinese, inserendole in un’evoluzione di lungo termine fatta di avvicinamenti e rotture, di collaborazioni e polemiche, tra visioni del mondo con diversi punti di convergenza ma pur sempre distinte tra loro sul piano filosofico. Una sinistra che non conosce la sua storia è destinata a marciare sul posto, ingabbiata in un eterno presentismo che le impedisce d’identificare e comprendere le principali sfide del presente, vanificando il suo potenziale di trasformazione della società. Il lavoro di Bernardi, insomma, è una lettura imprescindibile non solo per i pochi curiosi interessati alla storia del comunismo nostrano, ma per tutta la sinistra ticinese.

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