La collina del disonore

di Enrico Lombardi

 

Nell’apprendere dell’esito del processo ad una quarantina di militanti ambientalisti che per mesi hanno presidiato una collina vodese, il Mormont, area naturalistica protetta vittima dell’attività di scavo della multinazionale del cemento Holcim, riecheggia nella mente il titolo di un noto film di Sidney Lumet, ma solo perché il “disonore” della collina qui sta in un’applicazione della legge ed in un’idea della legalità sancite da una sentenza che ha davvero dell’incredibile.

 

Lo scorso 20 agosto, infatti, un tribunale vodese ha confermato le sanzioni carcerarie inflitte agli attivisti che dall’ottobre 2020 fino allo scorso 30 marzo hanno occupato con una ZAD (“Zone à défendre) una parte della collina del Mormont, fra Éclépens e La Sarraz, patrimonio naturale e paesaggistico, a causa dell’estensione dell’attività estrattiva concessa alla Holcim dal governo vodese.

 

Quel 30 marzo, con l’intervento in forze della polizia in tenuta antisommossa per l’evacuazione della zona, segna non solo la fine della prima esperienza di questo tipo in Svizzera, ma anche della possibilità di concepire pacificamente, come in tutti quei mesi hanno fatto gli “occupanti”, un’idea di rispetto del territorio diverso da quello che sin dagli anni ’50 permette ad una grande impresa del calcestruzzo di fare della collina una fonte inesauribile di sabbia e sassi con l’emissione di un’enorme quantità di CO2.

 

Per circa sei mesi gli attivisti della ZAD hanno cercato di difendere la collina ferita da un cratere sempre più grande e profondo, recintandone un’area che hanno trasformato in un accampamento di 250 – 300 persone, accessibile alla popolazione e sostenuto da numerose autorità della politica e della cultura (fra cui il premio Nobel per la chimica Jacques Dubochet).

 

Intorno alla collina si era estesa, nella Svizzera Romanda, un’ampia eco di preoccupazioni che aveva visto portare alla nascita di un’”Associazione per la salvaguardia del Mormont” molto attiva nel descriverne e difenderne tutte le ricchezze geologiche, archeologiche, naturalistiche, con specie animali e vegetali anche rare (si pensi ad uno specifico e particolarissimo tipo di orchidea).

 

Ma la legge stava e si è messa dalla parte di Holcim, che ha sporto la denuncia che ha portato allo sgombero forzato dell’area (per fortuna senza incidenti di rilievo) con fermi di polizia, indagini, interrogatori e denunce per violazione di domicilio, disobbedienza a decisione dell’autorità e impedimento di atti dell’autorità.

 

Come abbiamo già avuto modo di scrivere a suo tempo, in questa sede, “la questione, lo sappiamo, è enorme, come enorme è il disastro prefigurato da un ampio e diversificato “fronte ecologista”, che va dal noto filantropo e fondatore della Microsoft, ai gruppi più diversi, partiti, ONG, fondazioni, associazioni spontanee. È un fronte che si batte da anni contro il degrado ambientale che ogni giorno, ogni minuto, mostra le sue terribili conseguenze così come mette a nudo la scarsa o nulla sensibilità manifestata in questo senso dall’economia mondiale quanto dai nostri comportamenti sociali quotidiani.”

 

E così, ancora, riprendendo le parole del contributo citato, ci si trova davanti ad un “cratere simbolico, in un momento cruciale non solo per il Mormont, non solo per il paesaggio vodese, o svizzero, ma proprio per le sorti di un’economia che deve rivedere i propri parametri, in nome di un bene, la terra e l’eco-sistema, (…) difeso da un manipolo di volontari “obiettori di coscienza”.

 

E ancora, come allora, le domande che si pongono riguardano la definizione o ridefinizione di termini cruciali, nella loro valenza giuridica, etica, politica quali “Occupazione” o “protezione”, “legalità” o “illegalità”. E da parte di chi? In nome di cosa? Sono questioni importanti, poste da questo episodio in modo quasi emblematico.

 

Ma a bruciare ancor più è giunta ora la condanna degli attivisti che ha indotto Amnesty International a diramare un comunicato stampa giustamente allarmato ed allarmante, in cui la giurista Alicia Giraudel afferma che “l’occupazione della collina del Mormont, pur implicando la violazione premeditata di una legge nazionale, è stata fatta per delle ragioni di coscienza. I militanti hanno agito convinti che i loro atti erano il mezzo più efficace per sensibilizzare l’opinione pubblica all’impatto dell’estensione della cava sull’ambiente e i diritti umani”.

 

Sempre secondo Giraudel, le autorità giudiziarie hanno deciso di continuare “a perseguire le accuse di violazione di domicilio formulate contro gli attivisti nonostante il ritiro della denuncia da parte di HOLCIM. Si tratta qui di una violazione sproporzionata dei diritti alla libertà d’espressione e di riunione pacifica: in virtù del diritto svizzero la violazione di domicilio è perseguibile solo sulla base di una denuncia del titolare del bene in questione.” E, aggiungiamo doverosamente, è l’unica a prevedere eventualmente una pena detentiva.

 

E invece no: per 37 attivisti la condanna è stata di detenzione in carcere, da due a tre mesi, conformemente ad una denuncia, appunto, che non c’è, perché ritirata dalla multinazionale del cemento come segno di distensione. Il Ministero Pubblico, che ha emesso la sentenza (senza l’intervento di un giudice, poiché la procedura è stata condotta con rito abbreviato) non solo non ha fatto sconti, dunque, non solo non ha tenuto in considerazione che il giudizio andava a punire giovani incensurati, ma ha applicato delle pene che non rispettano né il principio dell’equo processo, né tantomeno le libertà di opinione, di coscienza e di riunione pacifica.

 

Inoltre la procura pubblica ha rifiutato il diritto, per gli imputati, di ricorrere contro questa sentenza “con la motivazione che avevano rifiutato di identificarsi al momento dell’arresto” (dal comunicato stampa di Amnesty Svizzera).

 

Ora siamo alle conseguenti prevedibili schermaglie legali, ai cavilli che le parti evocheranno e invocheranno per rimettere mano ad un processo e ad una sentenza che davvero lascia perplessi e anche, sì, mortificati. La netta impressione è che dalle pure “questioni legali” si sia già ampiamente passati ad un uso “politico” della giustizia, pratica peraltro non certo nuova.

 

La sensazione, insomma, è che di fronte alle legittime domande che questo caso solleva emblematicamente, la risposta giunta con la sentenza non solo non mostra alcuna preoccupazione di tipo etico o filosofico (né, tanto meno, semplicemente “umano”) ma in nome di un uso strumentale del “diritto” indica l’esigenza della politica di voler mettere a tacere ogni forma di “disubbidienza civile”.

 

Dimenticando, che la disubbidienza civile resterebbe, in verità, un diritto.

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