Cuba verso la via del dialogo e delle riforme socialiste?

di Roberto Livi, corrispondente dall’Avana

 

Le destre tornate al potere in molti paesi dell’America latina dal 2016 – dopo la marea rosa dei governi progressisti in Venezuela, Ecuador, Uruguay, Paraguay, Brasile, Cile, Argentina e Bolivia – con elezioni, lawfare (Brasile, Paraguay) o colpi di Stato (Bolivia) non sono riuscite a governare imponendo politiche neoliberiste e estrattiviste.

La scelta di questi governi è stata una repressione sempre più dura (prima in Cile e negli ultimi mesi in Colombia) e/o una crescente militarizzazione (Brasile).

 

Ma anche dove vi sono governi progressisti, la governabilità non gode di buona salute (Venezuela, Argentina, Messico e, ultimamente, Cuba). In generale dopo un anno e mezzo di pandemia una mobilitazione sociale si è estesa a tutta l’America latina, il subcontinente più colpito dal Covid-19. Due ci sembrano i casi più rilevanti: la vittoria alle presidenziali in Perù del maestro rurale Pedro Castillo e l’ondata di manifestazioni popolari che hanno scosso Cuba l’11 luglio.

 

Il Perù, paese della regione più colpito dalla pandemia, è da anni attanagliato da una grave crisi sociale e politico-istituzionale (cinque presidenti incriminati uno dopo l’altro negli ultimi 20 anni). La corruzione e la mancanza di credibilità sia dei partiti tradizionali che dei loro leader ha generato una galassia di miniformazioni che di fatto ha messo in crisi il processo di formazione di maggioranze coerenti, generando un aumento dell’instabilità non solo politica. Il paese, con la necessità di sostanziare in tempi brevi il sistema generale dei diritti con un ampliamento della partecipazione popolare oppure di precipitare nel caos, è una sorta di specchio nel quale si guarda l’intera America latina.

 

Lo scorso 6 giugno, nel ballottaggio, Castillo è stato eletto presidente con soli 40.000 voti di vantaggio (su 13 milioni di votanti) rispetto alla rivale, Keiko Fujimori, figlia dell’ex presidente Alberto, da anni in carcere per gravissime accuse (tra cui genocidio). Lei stessa sotto processo per corruzione e riciclaggio, sostenuta dalla destra e dalle élite urbane, Keiko ha tentato di far saltare le elezioni con centinaia di denunce di presunti brogli, mai dimostrati e tutti rifiutati dal Tribunale elettorale. Il risultato è stato una profonda frattura della società civile: le città della costa e le loro élite benestanti chiuse e ostili al popolo dei miseri villaggi dell’interno.

 

Castillo è un outsider, formatosi in un decennio di insegnamento nelle scuole di villaggi sulle Ande, poi come sindacalista della categoria. Il discredito che negli ultimi anni ha coinvolto la politica gli ha offerto l’opportunità di candidarsi accettando l’offerta di Perú libre, una formazione di sinistra nazionalista (accusata di estremismo), che però può contare solo su circa un terzo di deputati nel Congresso. Nel suo discorso di investitura, il 28 luglio, ha messo in chiaro che proporrà una riforma della Costituzione perché nello Stato possano trovare posto anche indios, neri e mulatti, gli abitanti originari dimenticati (come in altri paesi latinoamericani) in cinque secoli di colonizzazione bianca.

 

La prima crisi Castillo l’ha affrontata con la formazione del suo governo, diviso in due ali, quella radicale del premier Guido Bellido e quella riformatrice dei ministri Pedro Franke (Economia) e Anibal Torres (Giustizia). Importante per gli equilibri politici del subcontinente latinoamericano è la nomina agli Esteri dell’87enne sociologo – ed ex guerrigliero – Hector Bejar. Nel primo discorso ha annunciato che la politica estera del Perù sarà orientata agli interessi nazionali e non subordinata a quella «improntata all’ingerenza» degli Usa, come in precedenza. Per questo il Perù uscirà sia dall’Oea (il «ministero delle colonie» Usa) sia dal Gruppo di Lima – formato da paesi governati dalla destra e schierati contro i governi progressisti di Venezuela e Cuba – mentre è intenzionato a rafforzare la Celac come organizzazione multilaterale democratica per affrontare i problemi dell’America latina.

 

Domenica 11 luglio una serie di manifestazioni popolari hanno, inaspettatamente, percorso tutta l’isola di Cuba. Migliaia di persone hanno chiesto un miglioramento delle condizioni di vita, rese ancor più dure sia dalle misure di strangolamento adottate negli anni scorsi dall’ex presidente Trump e mantenute dall’Amministrazione Biden, sia da un drastico aumento dei contagi causato dalle più pericolose varianti del Covid-19. Non solo. Per la prima volta, specie fra le nuove generazioni che hanno animato le proteste, sono stati lanciati slogan politici per chiedere libertà di espressione e di organizzazione (peraltro garantite dalla Costituzione del 2019), ma anche contro il governo socialista e a favore di un intervento Usa.

 

La maggioranza delle manifestazioni si è svolta pacificamente, ma in alcune vi sono stati episodi di vandalismo e di violenza. Un uomo è morto in un tentativo di assalto a una stazione di polizia del quartiere di Arroyo naranjo (L’Avana). Per contenere le manifestazioni sono state impiegate anche unità delle forze di sicurezza e della brigata antisommossa, i cosiddetti «baschi neri», accusati di aver usato una violenza eccessiva. Gli arresti sono stati centinaia (non è stata fornita alcuna cifra precisa e provata). Molti degli arrestati sono stati giudicati nei giorni seguenti in processi che, secondo l’opposizione, «sono sommari» e non offrono garanzie democratiche.

 

La prima reazione del governo retto dal presidente Miguel Díaz-Canel è stata di difesa della Rivoluzione contro la minaccia di un «golpe blando», ovvero di manifestazioni preparate e coordinate dall’esterno (in Usa) con lo scopo di abbattere il governo socialista. Timori rafforzati dalle nuove sanzioni imposte dal presidente Biden, sempre con l’assurda motivazione di «aiutare il popolo cubano nella sua lotta per la libertà». Nei giorni seguenti, però, alla repressione e alla mobilitazione delle organizzazioni popolari rivoluzionarie è seguita una linea di dialogo con chi, pur critico per il ritardo delle riforme economiche decise da anni e ancora in mezzo al guado, sostiene le scelte socialiste. Una serie di misure sono state prese per alleviare le durissime condizioni di vita della gran parte della popolazione. Sono stati distribuiti aiuti giunti da paesi amici, tra i quali il Messico, l’Argentina e la Russia, che hanno accusato gli Usa di essere i veri responsabili delle manifestazioni. Sono state adottate riforme attese, come l’apertura alle Pymes, piccole e medie imprese private. Ma nessuna apertura a riforme politiche che mettano in pericolo il sistema a partito unico e la prevalenza dell’economia statale e pianificata, che si è dimostrata per molti versi inefficiente.

 

Molti e di varia natura politica sono stati i commenti e le interpretazioni dei fatti dell’11 luglio. Ma in generale vi è un accordo che quelle manifestazioni sia per l’ampiezza, sia per i contenuti, rappresentino uno spartiacque nei più di sessant’anni di socialismo seguito alla vittoria della Rivoluzione nel 1959. Vi è un prima e si attende con ansia e incertezza un «dopo».

 

Questo «dopo», secondo alcuni intellettuali critici ma pienamente schierati per riforme socialiste, dipende dalle risposte che il vertice del Pc e del governo daranno a una serie di questioni sollevate dalle manifestazioni.

L’11 luglio si può interpretare solo «a causa dell’azione sovversiva del nemico, mediante le reti sociali»? O vi sono anche responsabilità nel modo di far politica a Cuba e nella sostanziale incapacità delle riforme economiche e sociali fino a oggi adottate di garantire una vita sostenibile per i cittadini?

Che progetto esprimono le proteste popolari? Una resa al capitalismo, come espresso dalla canzone slogan «Patria e vida», o una fame democratica – leggasi socialista – insoddisfatta del popolo cubano?

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