Le battaglie di una vita

di RedQ

 

Del libro intervista curato da Roberto Antonini sulla vita di Pietro Martinelli si è già parlato molto subito dopo la sua apparizione, ad inizio settembre, soprattutto a causa del delirante attacco del «Mattino della Domenica», che finiva invitando Pietro a rinunciare al passaporto svizzero, riprendendosi quello italiano.

Per tornare alle cose serie, diciamo subito che chi è interessato alla politica cantonale, ma probabilmente anche chi si diletta di politica tout court, il libro lo leggerà tutto d’un fiato. Roberto Antonini, bravo intervistatore come sempre (anche se questa volta forse un po’ meno provocatorio del solito), sa guidare bene Martinelli dalla sua infanzia sino ai giorni nostri, sapendo bilanciare i vari argomenti, anche quando Pietro tende ad allargarsi troppo su certi temi che lo interessano particolarmente, come per esempio la famosa storia della legge urbanistica. Il libro diventa così una fonte preziosa di informazioni, soprattutto su quel periodo storicamente importante che furono gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, gli anni della Nuova Sinistra.

 

Ci permettiamo quindi di aprire una parentesi: nei cicli di formazione appena iniziati ed organizzati dal ForumAlternativo sono previsti anche quattro dibattitti su quel periodo, e Martinelli dovrebbe essere uno dei partecipanti alla seduta sull’esperienza della Nuova Sinistra ticinese. Sarà l’occasione per confrontarci sulle nostre interpretazioni del significato politico degli anni ’70 e del riflusso successivo. Un periodo, quest’ultimo, che lo ha progressivamente portato a scegliere i rischi della concordanza e a disilludersi sulle possibilità di superare il capitalismo, contribuendo in prima persona all’abbandono dell’eredità politica del PSA e all’instaurarsi nella sinistra del nostro cantone delle logiche della «Terza via».

 

Chi poi è interessato anche alla storia più aneddotica, che però spesso è molto chiarificatoria, troverà pane per i suoi denti. E dei tanti episodi raccontati da Martinelli pensiamo alle sfuriate di Dick Marty contro Giuseppe Buffi, quando questo stava tessendo il suo pateracchio con la Lega e soprattutto con Comunione e Liberazione per poter arrivare a creare senza problemi l’Università della Svizzera italiana. O alla vicenda, oggi in gran parte dimenticata, della famigerata Thermoselect, e del ruolo giocato allora da Marco Borradori, incatenato alle decisioni del Nano. Senza dimenticare la succosa storia di una sua possibile quarta legislatura in Consiglio di Stato, mandata a monte da una delle solite infelici commissioni cerca del PS, che alla fine ci ha regalato Patrizia Pesenti.

 

Volendo staccarsi dalle tribolazioni della politica ticinese (ma Martinelli riconosce di avere poca dimestichezza con quella federale e ancora meno con quella internazionale), di primo acchito verrebbe voglia di associare Pietro ai principi dell’ala destra della Seconda Internazionale – quella formata a fine Ottocento dai partiti socialdemocratici, termine che allora era praticamente equivalente a quello di marxisti, prima del tradimento dei socialdemocratici tedeschi con i crediti per la prima Guerra Mondiale nel 1914 e la conseguente scissione bolscevico-comunista da parte di Lenin. A questa corrente appartennero pensatori illustri come per esempio Bernstein, che pur partendo dalle analisi di Marx propagavano l’idea che si sarebbe potuto arrivare a creare una società socialista anche con una conseguente serie di riforme, e non solo con la rivoluzione Pietro centra infatti tutto il suo discorso politico sulle riforme.

 

Se egli parte dalla definizione molto chiara di A. Gorz sulle riforme di struttura (che accumulandosi hanno, come dice il termine, alla fine la capacità di cambiare la struttura, e quindi i rapporti di potere nella società), spesso arriva però a formulare poi una serie di idee riformiste che con la definizione di Gorz poco hanno a che fare (e Antonini un paio di volte glielo fa rimarcare). In conseguenza, risulta difficile credere alla sua adesione alla definizione di Gorz, quando al contempo afferma che per lui la riforma più ambiziosa era quella dell’amministrazione cantonale – poi approvata all’unanimità da tutto il Gran Consiglio. Per cui, al di là dei proclami del diretto interessato e ad uno sguardo più attento, ci pare più giusto accostare Martinelli ai discepoli di Keynes piuttosto che a quelli di Bernstein.

 

Buona parte del discorso riformista di Martinelli appare anche abbastanza lontano dalle posizioni iniziali del PSA, di cui egli dice un po’ troppo sbrigativamente che aveva avuto «un’ideologia, confusa e utopica, che serviva soprattutto per le emozioni». Per cui al lettore può sembrare non inverosimile che a quei tempi, data l’atmosfera generale, Pietro avesse in gran parte rimosso quella che è poi diventata in modo evidente la sua fondamentale vocazione istituzionale e tecnocratica, che si è chiaramente concentrata attorno ai miti del rigore, della trasparenza e della governabilità.

 

Anche se qua e là egli lascia poi trasparire che forse l’unificazione con il PST avrebbe potuto essere in parte uno sbaglio: non si può infatti dimenticare come la scomparsa del PSA abbia contribuito – e di molto – al successo della Lega, facendo convogliare verso quest’ultimo gran parte del voto di protesta. Questo ci sembra essere il nocciolo essenziale dal punto di vista politico di questo libro, e secondo noi avrebbe dovuto essere maggiormente approfondito. Qui sarebbe stato interessante capire maggiormente come si è formata la sua identità, tardiva, e che lui stesso riconosce essere stata un po’ «raffazzonata» di «marxista rivoluzionario» e di dissidente dentro il vecchio PST, scavando un po’ di più su quelli che erano stati i suoi legami, almeno a livello di formazione, con Canevascini e Pedroli.

 

A parte il famoso episodio, quando il comitato cantonale del PSA obbligò Martinelli a rinunciare al seggio al Consiglio Nazionale a favore di Carobbio, poco veniamo a sapere sull’evidente gioco delle parti, che i due esponenti di spicco hanno evidentemente portato avanti già al tempo del PSA (uno più organizzativo e movimentista, l’altro più istituzionale e tecnocrata), ma anche più tardi a riunificazione avvenuta.

 

In tutte le sue analisi, Martinelli si trova spesso ad appaiare valutazioni che sembrano «filo-marxiane» con giudizi puramente idealistici, hegeliani come si diceva sino a qualche anno fa. E questo non solo per quanto riguarda la politica ticinese, ma anche su temi più globali. Pensiamo alla sua corretta valutazione del ruolo fondamentale della rivoluzione bolscevica e anche la sua spiegazione di come mai si è sentito a lungo attratto dal modello sovietico, mentre il suo giudizio sulla scomparsa e la sconfitta finale dell’URSS (ma anche su Cuba e la Cina) è molto sbrigativo e poco approfondito. Forse la parte più deludente è quella relativa ai suoi tre anni di esperienza forzata in Guinea (perché qui in Ticino con il Berufsverbot non gli davano più lavoro per punirlo delle sue posizioni politiche): ci si aspettava qualcosa di più su tutto il tema del colonialismo e delle sue conseguenze.

 

A Martinelli va sicuramente riconosciuto di aver sempre avuto il coraggio delle sue posizioni. Così anche in questo momento difficile, egli presenta una chiara difesa delle esperienze dell’autogestione, quindi anche del Molino, dando un giudizio quasi sprezzante degli avversari, che vorrebbero semplicemente «trasformare Lugano in una specie di Monte Carlo». Mentre la maggior parte degli ex Consiglieri di Stato se la spassa tra ottima pensione, prebende varie e consigli di amministrazione, Pietro ha rifiutato tutta una serie di offerte e continua a leggere, studiare e a battersi con i suoi lunghi e documentatissimi articoli ogni qualvolta un oggetto importante è in votazione popolare. Anche se quasi sempre questi contributi arrivano all’ultimo momento, quando tutti, o quasi, hanno già votato. Ma che Pietro arrivasse sempre in ritardo lo si sapeva già ai tempi del PSA: non per questo veniva ascoltato meno. Anzi.

Tratto da: