Rojava, la rivoluzione al femminile

di Chiara Cruciati, giornalista

 

Lungo la strada che corre tra il valico di Semelka, estremo oriente della Siria del nord, e la città di Qamishlo il panorama è spezzato dai manifesti con il volto dei martiri caduti nella brutale battaglia contro lo Stato islamico. 

Volti di donne e uomini che prima si sognavano insegnanti, ingegneri, medici: civili che hanno preso le armi e indossato la divisa per difendere il modello di società nato subito dopo lo scoppio della guerra civile siriana.

 

Il confederalismo democratico è concreta realtà da dieci anni, palpabile non tanto nei checkpoint delle unità di difesa curde maschili e femminili, le Ypg e le Ypj, ma nei luoghi fisici delle istituzioni nate dalla teorizzazione del leader del Pkk, Abdullah Ocalan. Assemblee di quartiere, di villaggio, di città, cooperative, consigli, una forma di democrazia dal basso che vede protagoniste persone per decenni tenute ai margini della gestione politica e sociale delle proprie comunità.

 

Nel centro di Qamishlo, al pianoterra della sede dell’ufficio per le relazioni internazionali dell’Amministrazione della Siria del Nord-est, incontriamo un gruppo di donne. Sono alcune dei membri del coordinamento centrale del Women Council. Nato nel 2019, è l’ombrello politico di tutte le realtà femminili del Rojava: ne fanno parte 150 membri, donne rappresentanti delle organizzazioni della società civile, delle cooperative, dei movimenti giovanili, delle istituzioni. Corre in parallelo alle altre strutture politiche create dall’Amministrazione ma, a differenza di queste dove la parità di genere è assoluta (metà uomini e metà donne, a ogni livello, dalla base al vertice), il Women Council è composto interamente da donne.

 

Tra i principi cardine del confederalismo democratico, l’eguaglianza di genere è di certo quello più avanzato. Quello che ha raggiunto il più alto livello di realizzazione, in un percorso accidentato di crescita politica di un modello sotto attacco perpetuo fin dalla sua nascita.

 

«Le donne in Medio Oriente non sono state coinvolte nell’attività politica, se non in minima parte – ci spiega Georgette Barsoum, siriaca cristiana tra i 17 membri del coordinamento centrale – Fin dall’inizio della rivoluzione nel Rojava le donne hanno invece avuto un ruolo centrale. Gli ostacoli sono molti, legati alla religione e alla tradizione. Ma dopo la rivoluzione, molte porte si sono aperte. Di certo le forze femminili di autodifesa hanno fatto da testa di ariete per la partecipazione femminile. Questo Consiglio in particolare è uno strumento importante perché mette insieme le donne che operano a ogni livello della vita sociale e politica».

 

I compiti che si pone sono vari, ci dice Ster Kassem, responsabile amministrativa del Female Peace Leaders Network: «Operiamo dalla base al vertice, con assemblee nelle cooperative, i partiti, le organizzazioni femminili che riportano al Consiglio necessità e soluzioni. Da lì si parte per proporre leggi nuove o per applicare quelle esistenti, per sviluppare i meccanismi di partecipazione politica ed economica delle donne. In poche parole, il Consiglio lavora all’eguaglianza di genere da una visione esclusivamente femminile».

 

Il percorso è difficile. Soprattutto nei luoghi in cui gli effetti della guerra lanciata dalla Turchia e dell’occupazione da parte delle milizie islamiste legate ad Ankara sono la quotidianità. Con la presa di Afrin nel 2018 e delle città di Serekaniye e Tal Abyad nel 2019, qui il confederalismo democratico è stato soppiantato da una gestione del potere fatta di soprusi e furti di case e terre, imposizioni religiose e linguistiche, repressione. Riesce invece a rivivere nei campi sfollati: a Washokani, sorto dopo l’attacco turco dell’ottobre 2019, 15mila persone – tutte o quasi provenienti da Serekaniye – hanno ricreato lo stesso modello politico per autogestirsi. Assemblee, consigli, comitati alla salute, i giovani, l’educazione.

 

Una riproposizione che dimostra l’efficacia di un modello che è stato accolto dalle diverse comunità della Siria del Nord-est (e che difatti coinvolge città e villaggi curdi, arabi, assiri, siriaci, turkmeni). Fino a «contagiare» realtà esterne. Al di là della frontiera orientale siriana, nel nord-ovest dell’Iraq, la regione ezida di Shengal è quella che più direttamente ha intrapreso un sentiero simile a quello del Rojava: una comunità marginalizzata politicamente da decenni, sottoposta a una delle occupazioni islamiste più feroci e a una guerra combattuta sul corpo delle donne e sul cuore pulsante delle sue reti sociali, ha avviato negli ultimi sette anni un processo di ricostruzione di sé assumendo come modello il confederalismo democratico.

 

«Era l’inizio di agosto del 2014 quando si diffuse la voce dell’attacco di alcuni villaggi da parte dell’Isis – ci racconta Suleiman, membro del partito ezida Pade – Abbiamo chiesto rassicurazioni ai peshmerga del governo regionale del Kurdistan iracheno, hanno promesso che ci avrebbero difeso. Non sono mai arrivati nei villaggi attaccati, sono fuggiti. E in pochi giorni Shengal è caduta in mano all’Isis: hanno ucciso chi potevano, migliaia di persone, e rapito migliaia di donne. Io sono riuscito a convincere la mia famiglia a fuggire in montagna prima che l’Isis arrivasse nella nostra comunità, Burik. Sul monte Sinjar sono scappati decine di migliaia di ezidi. Le forze del Rojava hanno aperto un corridoio verso la Siria e verso Dohuk. Chi è rimasto si è unito alla resistenza».

 

È in montagna, nei giorni della fuga, che in breve tempo gli ezidi hanno creato le proprie forze di autodifesa, le Ybs e le Yjs, e – come ricorda Suleiman – un governo di emergenza, embrione di quella che dopo la liberazione dall’Isis sarebbe stata l’Amministrazione autonoma che tuttora auto-gestisce Shengal. «Insieme alla guerriglia, con la liberazione dei primi villaggi abbiamo creato le prime comuni, le prime assemblee, le cooperative. Da lì si sono moltiplicate via via che la liberazione proseguiva».

 

A cinque anni dalla cacciata dell’Isis, oggi l’Amministrazione prosegue nella lenta e graduale ricostruzione della società ezida, tra enormi difficoltà: l’assenza di metà della popolazione (250mila persone sono ancora rifugiate al di fuori di Shengal), la povertà, gli attacchi esterni sia diplomatici (il famigerato accordo dell’ottobre 2020 tra i governi di Erbil e Baghdad per riassumere il controllo della regione) che militari (i bombardamenti via drone da parte della Turchia).

 

«Sono tre le minacce da affrontare – ci spiega un comandante delle unità di difesa ezide Ybs, in condizione di anonimato – Interna, regionale e internazionale. A livello interno il governo centrale iracheno e quello regionale curdo sono disturbati dall’autogestione e intendono mettergli fine. A livello regionale, siamo sotto attacco della Turchia che vuole fermare l’avanzata del confederalismo democratico. E a livello internazionale siamo al centro della contesa tra potenze, Stati uniti e Iran in particolare».

 

«L’organizzazione politica è una necessità – conclude – Il modello che stiamo perseguendo non è nato a tavolino, ma si è sviluppato durante il massacro del 2014. Abbiamo acquisito esperienza militare e politica grazie all’esempio delle Ypg e delle Ypj e consapevolezza politica gradualmente, passo passo con la ricostruzione della società».

 

Ma è proprio l’ampliamento del raggio di azione del confederalismo democratico a preoccupare di più le potenze regionali. A partire dalla Turchia che negli ultimi mesi ha intensificato gli attacchi ai luoghi simbolo di questo modello in fieri: bombarda Shengal, bombarda Makhmour, il campo profughi curdo a sud di Erbil che dagli anni Novanta è la culla politica del confederalismo democratico, e bombarda le montagne di Qandil, quartier generale della leadership del Pkk. Attacchi combinati con un obiettivo unico: far crollare l’esperienza del Rojava e di Shengal e riportare sotto l’ala del modello coloniale e capitalista una regione che sta tentando con successo un’alternativa egualitaria, ambientalista e socialista.

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