In Kazakistan, protagonista è la classe operaia

di Yuri Colombo, corrispondente da Mosca dei Quaderni del ForumAlternativo

 

“Dalla ribellione alla rivoluzione” titolava mercoledì scorso l’autorevole (ma conservatore) portale del moscovita Expert, di fronte ai tumultuosi avvenimenti che stanno sconvolgendo il Kazakistan dal 1º gennaio.

Avvenimenti destinati a pesare e trasformare in profondità il quadro politico non solo dell' Asia centrale ma di tutta l’area post-sovietica.

 

Le manifestazioni contro il governo erano iniziate già sabato scorso nella provincia di Mangistau, nel sud-est del paese che si affaccia sul Caspio. Le proteste erano dirette contro il raddoppio del prezzo del gas liquido del 100% da 60 a 120 tenge (la valuta kazaka) ma già il giorno successivo erano entrati in sciopero generale buona parte dell’imprese kazake. I lavoratori della Ozenmunaigas hanno annunciato per primi che si sarebbero uniti alla protesta, a cui si sono uniti i minatori della North Buzachi e della Karazhanbas. Il 4 gennaio buona parte del paese era entrato in agitazione: i minatori della regione di Karaganda e i lavoratori della Kazakhmys Corporation nell’ex regione di Zhezkazgan così come i lavoratori del petrolio hanno bloccato la ferrovia e l'autostrada aTaraz. Manifestazioni di piazza si segnalano anche a Aktobe, Uralsk, Kyzyl-Orda, Turkestan, Shymkent, Kokshetau, Kostanai, Taldykorgan, Ekibastuz, Taraz e altre città e regioni del Kazakistanh. I camionisti hanno bloccato parte delle strade di Shymkent. A cui si sono aggiunti i roit ad Alma Aty – l’ex capitale del paese, metropoli di due milioni di abitanti – dove migliaia di giovani hanno iniziato a scontrarsi con la polizia.

 

In soli quattro giorni le prime rivendicazioni operaie e popolari contro l’aumento dei prezzi del gas iniziate nelle regioni sud-occidentali del paese si sono trasformate in un processo insurrezionale dove spesso la polizia ha avuto la peggio o come ad Akatau dove si è assistito a fenomeni di fraternizzazione tra forze dell’ordine e dimostranti. Una situazione fuori controllo fino al punto che per sedare la rivolta il Presidente in carica, Quasym-Jormat Toquaev, ha chiesto l’intervento dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO), il patto di Varsavia versione post-crollo dell’Urss.

 

Per chi intende capire gli avvenimenti nella loro complessità sarà utile evitare schemi preconfezionati: il Kazachstan non è Piazza Maidan del 2014, non è la Bielorussia dell’agosto 2020, anche se con quest’ultima condivide una rinnovata mobilitazione della classe operaia industriale da tempo sconosciuta nel mondo occidentale.

 

Da più parti per spiegare quanto sta avvenendo si parla ora di “rivolta spontanea”, ma è davvero così? Non proprio, la mobilitazione non è nata come Minerva dalla testa di Giove e mobilitazioni di tale portata forse possono essere improvvisate ma non create dal nulla.

 

Il movimento operaio kazako ha una grande tradizione di lotta. Le prime ondate rivendicative soprattutto nel settore petrolifero ed estrattivo (oltre che metalmeccanico) condussero alla formazione, nel 2004, dei primi sindacati indipendenti kazaki dell’era postsovietica. Il momento culminante di questa ondata rivendicativa (principalmente salariale) fu raggiunto nel 2011 con i gravi incidenti nella città di Zhanaozen, quando il 16 dicembre, la polizia sparò su gli operai, uccidendone 16, ferendone e arrestandone centinaia. Malgrado la durissima repressione che poi ne segui, forme di resistenza, semiclandestina, dei lavoratori non cessarono più.

 

Nel 2021 il processo di ricomposizione delle lotte è poi accelerato. A partire dal giugno corso il Kazakistan è stato attraversato da un’ondata di scioperi straordinaria che hanno spianato il terreno agli avvenimenti di questi giorni. Scioperi alla KEZBI LLP di Zhanaozen come alla KMG-Security, alla MunaiSpetsSnab Company. alla Aktau Oil Service Company alla Oilfield Equipment and Service, alla BatysGeofizService, alla Eurest Support Services LLP (ESS), alla Ozenenergoservis, al campo petrolifero di Karazhanbas, nella regione di Mangistau.E poi alla Industrial Service Resources LLP, alla Industrial Service Resources LLP, alla KMG EP-Catering.

 

Il 28 giugno scorso un grosso gruppo di donne di Astana presero l'assalto il ministero dell'industria di Astana, chiedendo posti di lavoro, alloggi e maggiori benefici per i bambini. L'8 luglio anche i lavoratori delle ferrovie di Shymkent entrarono in sciopero bloccando la circolazione regionale, mentre sempre ad Alma Ata, il 20 luglio, decine di dipendenti dei servizi di soccorso delle ambulanze protestarono contro il ritardo nel pagamento delle indennità "coronavirus" e per le disastrose condizioni di lavoro.

 

Tutti scioperi coronati da successo che condussero ad aumenti salariali significativi e a un miglioramento delle condizioni di lavoro.

 

Se oggi i lavoratori kazaki si stanno muovendo con tanta decisione ciò è dovuto in primo luogo proprio a quei successi parziali che ottennero durante quelle agitazioni e ciò ha sicuramente rafforzato in loro convinzione e fiducia.

 

Ma la “ribellione” si è trasformata in “rivoluzione” non solo per la discesa in campo della classe operaia industriale. Dal secondo giorno ad Alma Aty, come abbiamo già segnalato, hanno iniziato a mobiliarsi i giovani della periferie in veri e propri roit (spesso armati) che hanno conteso palmo a palmo alle forze dell’ordine e ai reparti speciali il territorio. Uno scontro divenuto eminentemente politico visto che le autorità avevano a quel punto accettato di ridurre i prezzi del gas (da 60 a 50 tenge il litro), di sussidiare quelli degli alimentari mentre il governo si era formalmente dimesso.

 

Novaya Gazeta sostiene che le dimensioni della rivolta ad Alma Aty sono determinate dal fatto che “ci sono molti giovani disoccupati. Secondo un censimento dell’autunno scorso infatti, il 53,69% della popolazione ha meno di 28 anni. Ed è proprio tra questi strati che la disoccupazione è particolarmente alta”.

 

Il Movimento Socialista del Kazakistan, una delle formazioni di sinistra più influenti nel paese, nel salutare le mobilitazioni in corso rivendica in particolare in un suo volantino diffuso in varie città: la cessazione immediata delle ostilità contro il popolo e il ritiro delle truppe dalle città, le dimissioni immediate di tutti i funzionari di Nazarbayev, compreso il presidente Toqaev, il rilascio di tutti i prigionieri e detenuti politici, il diritto a formare propri sindacati, partiti politici, nazionalizzare tutte le industrie estrattive e su larga scala sotto il controllo dei collettivi di lavoro!

 

Sta diventando chiaro a questo punto che se entro i prossimi giorni il governo centrale con l’aiuto delle truppe dell’Alleanza non dovesse riuscire a prendere il controllo della situazione – finora il numero di morti tra i manifestanti resta imprecisato ma nell’ordine minimo di decine di vittime - si potrebbe assistere a un vero e proprio crollo statale per certi versi simile a quello avvenuto in Afghanistan l’estate scorsa.

 

In questo quadro va tenuto però conto che non sono apparsi tra la popolazione segni di livore anti-russo e neppure la variante del fondamentalismo islamico sembra giocare un ruolo significativo nelle proteste mentre non è chiaro dove si andranno a posizionare i vari clan tribali che negli equilibri del paese hanno sempre svolto un certo ruolo.

 

I segni di “cedimento strutturale” del resto ci sono tutti. In queste ore “ci sono notizie di decine di jet privati che lasciano il paese, il Kazakistan dell'élite imprenditoriale sta lasciando il paese in fretta e furia” e lo stesso Narsultan Nazarbaev dopo essere stato dimesso imperio dal presidente in carica si dice si sia rifugiato all’estero. Ma che si stesse ballando su un Titanic nessuno se lo immaginava. In un articolo per Foreign Policy del dicembre scorso Baurzhan Sartbayev, Presidente del Consiglio di amministrazione di Kazakh Invest sosteneva con baldanza che: “il Kazakistan è emerso come un attore importante nell'economia globale e una destinazione di investimento attraente. In definitiva, il Kazakistan è sulla strada per migliorare il clima degli investimenti e rafforzare la posizione del paese all'interno della comunità globale”.

 

Non sono solo la classe operaia e il sottoproletariato ad essere stanchi di un potere che – forse unico insieme all’Azerbaigian – ha una filiazione diretta con l’ex-Urss essendo stato Nazarbaev anche l’ultimo segretario del Pcus kazako fino proprio al 1991.

 

In questi anni mentre la forbice delle ricchezze sociali cresceva a dismisura si è formata nelle grandi metropoli (Nursultan, Alma Aty e Astana) un piccolo strato di classe media urbana che ha mostrato sempre più stanchezza per la corruzione, il nepotismo, l’autoritarismo e la scarsa mobilità sociale che affascia il paese. Questi strati sono quelli anche più sensibili alle argomentazioni più prettamente politiche come l’opposizione al sistema nepotistico di Nazarbaev, l'insoddisfazione per il governo di Toqaev e per un sistema di partiti rigido e antidemocratico, per l’esistenza di leader locali non eletti e così via.

 

Se elementi di “rivoluzione arancione” ci sono nella vicenda kazaka si annidano in questi strati e in queste città dove da sempre sono state attive le Ong occidentali, le associazioni culturali turche e la presunta base di Mukhtar Ablyazov, un-ex banchiere bancarottiere che guida il Scelta Democratica del Kazakistan, oggi in esilio a Kiev, la cui influenza è in realtà scarsa o nulla.

 

La tesi del “ruolo di forze straniere” viene rilanciata in queste ore per evidenti motivi anche dal ministero degli esteri russi con un comunicato ad hoc, ma senza troppa convinzione. Putin appare, dietro le quinte, convinto che i margini di manovra dell’attuale regime siano stretti, ma non sembra aver altra scelta oggi che sostenere il presidente in carica, un po’ come avvenne nel 2020 con Lukashenko.

 

Anche i media occidentali hanno evitato – almeno finora – di suonare la grancassa della propaganda antirussa e i motivi sono evidenti: ci sono grandi investimenti stranieri nel paese che ora rischiano di sfumare o di subire pesanti perdite a causa del clima interno del paese. (tra cui i Paesi Bassi, rimangono il più grande investitore del paese con 3,3 miliardi di dollari, seguiti da Stati Uniti - 2,1 miliardi di dollari e Svizzera - 1,3 miliardi di dollari).

 

La situazione per Putin già complessa ai suoi confini occidentali ora potrebbe diventare non agevole anche a oriente. Anche perché la resistenza della classe operaia, che non arretrerà, potrebbe impedire quella “riforma dall’alto” del regime interno che la presidenza Toqaev ora sembra pronta a compiere.