Il personale curante delle Case per Anziani di fronte alla prova del Covid

di RedQ

 

Nel quadro di un progetto in due fasi del Centro Competenze Anziani della SUPSI sostenuto dal l’Ufficio degli anziani e cure a domicilio (UACD) e dall’Ufficio del medico cantonale (UMC), le ricercatrici SUPSI Carla Sargenti, Rita Pezzati e Luisa Lomazzi si sono chinate sul vissuto delle direzioni e del personale di alcune Case per Anziani (CpA) durante il primo anno della pandemia, in particolare durante le due ondate di marzo e novembre 2020.

I loro risultati concernenti il personale curante, particolarmente interessanti, meritano tutta l’attenzione della politica: i dati raccolti tramite delle schede di autovalutazione e dei focus group, in buona parte in accordo con la letteratura internazionale, mostrano un quadro fatto di stress, stanchezza, sofferenze e paure, ma anche di forte spirito di squadra e volontà di far fronte alle difficoltà incontrate. Tutte cose a cui non è possibile rispondere solo con gli applausi. Per capirne di più, ci siamo rivolti direttamente a Sargenti, Pezzati e Lomazzi, che si sono messe a disposizione per rispondere alle nostre domande.

 

 

 

Quali sono le principali problematiche che avete riscontrato nel vissuto degli operatori delle Case per Anziani (CpA) durante le due prime ondate della pandemia?

 

L’arrivo improvviso della prima ondata di Covid-19 ha stravolto il nostro modo di vivere sia a livello personale che a livello professionale. Ha generato enormi emozioni, tanta paura, stress e immensa fatica, ma anche spiragli di aperture per nuove comprensioni. Nelle CpA l’impatto del Covid ha implicato cambiamenti costanti a tutti i livelli: nella gestione e nell’organizzazione, ma soprattutto nel lavoro quotidiano delle operatrici e degli operatori. Questi ultimi sono stati confrontati non solo con delle condizioni di lavoro più dure, ma anche con l’esperienza dell’isolamento (il 43% dei curanti si sono isolati nella propria abitazione o trasferiti in albergo per evitare la diffusione del virus) e con l’inusuale esposizione alla sofferenza e al decesso di persone residenti ben conosciute, in un contesto in cui l’abituale accompagnamento al fine vita era trasformato dalle rigorose misure pandemiche, con tutte le conseguenze del caso sul vissuto delle persone implicate.

 

Nel complesso, l’esperienza del personale curante è stata caratterizzata da una situazione di stress, legata alla percezione dell’aumento del carico di lavoro e alla sensazione di un pericolo di contagio per sé e per gli altri. Stress che si è venuto a sommare con una sensazione di stanchezza (segnalata da oltre l’80% dei rispondenti in tutti i periodi studiati), la sofferenza per la situazione eccezionale (incertezza sulla durata della crisi, mancanza di terapie provate o di un vaccino, iniziali difficoltà di approvvigionamento di Dispositivi di Protezione Individuale (DPI), alto rischio di trasmissione di infezioni, stigmatizzazione degli operatori a contatto con le persone infette, ecc.) e una percezione di paura, coerente con la natura umana ma inadeguata rispetto al ruolo di curante, e quindi vissuta con sofferenza. Dai nostri dati, emerge come la consapevolezza di non riuscire ad offrire la qualità clinica e relazionale delle cure per le quali i professionisti sono preparati porta a demotivazione, frustrazione, sentimenti di inutilità e colpa, oltre che a difficoltà nel regolare gli aspetti emozionali, sia con sé stessi (rabbia) sia nelle interazioni con i colleghi (irritabilità). Dai vissuti emergeva così un forte senso di frustrazione nel non poter esprimere la propria professionalità nella sua pienezza – fatta dell’aver cura, di accompagnamento, di affetto,… e questo ha accresciuto, nella maggioranza degli operatori, cognizione e coscienza del proprio valore intrinseco a livello professionale e umano.

 

Ma da questa dolorosa e difficile esperienza emergono anche ottime capacità a gestire i repentini cambiamenti, una grande flessibilità e duttilità, creatività, forte lavoro di squadra, coinvolgimento, cooperazione e grande senso di comunità. I curanti, particolarmente per quelli attivi nei reparti Covid delle CpA, malgrado la prima faticosa e dolorosa fase pandemica, hanno dichiarato di avere esperito e ritrovato una dimensione di piacere insita nella vicinanza e in una professionalità «affettuosa», riscoprendo la potente valenza del tempo condiviso e intensamente dedicato alle persone anziane.

 

 

 

Quello della fatica e del carico eccessivo di lavoro è un problema noto del settore delle cure. In che modo esso è stato vissuto dagli operatori delle CpA durante le due ondate della pandemia?

 

La fatica – intesa come «sforzo» – è composta da percezioni di sé diversificate: stanchezza o poca energia, sentirsi nervosi, ansiosi o tesi, provare difficoltà a rilassarsi e con il sonno, sentirsi sopraffatti dal carico di lavoro e avere difficoltà con la regolazione alimentare. Tra i 26 segni/sintomi presenti nella scheda di autovalutazione, questi 6 indicatori di fatica sono stati segnalati pressoché sempre da più della metà tanto dei curanti che degli operatori dei servizi alberghieri, amministrativi e tecnici con picchi stabilmente superiori o vicini all’80% per la stanchezza nei tre periodi e per il nervosismo a marzo. Il quadro d’insieme di questi dati mostra quanto la percezione di un pericolo per sé e per gli altri, residenti e familiari, abbia generato un’allerta acuta, costante e generalizzata che impatta in modo totalizzante i tre livelli di percezione e consapevolezza di sé: il corpo, l’emozione incarnata e i pensieri. In particolare, se a marzo il bisogno di controllo dei propri gesti e azioni «in apprendimento continuo», dato dai cambiamenti sostanziali nelle prassi di cura (dalla vestizione ai tempi di presenza nelle stanze) sembrava offuscato dalla stanchezza generata dalla continua adattabilità richiesta dal divenire delle situazioni contingenti, a maggio/giugno, maggiori certezze, minor pressione e un apprendimento più sistematico avevano generato l’esperienza di un controllo protocollato di gesti e azioni fonte di un crescente senso di sicurezza e calo della fatica. A novembre, però, la stanchezza necessitava di un controllo come certezza anticipatoria rassicurante, a sostegno della durata nel tempo, come punto di equilibrio tra il bisogno di avere una routine e la necessità di non esserne sopraffatti, che ha amplificato ulteriormente la fatica.

 

 

 

Quali soluzioni vedete, a lungo termine, per migliorare le condizioni di lavoro e il vissuto degli operatori delle CpA?

 

Al momento della nostra ultima rilevazione nel mese di novembre 2020, risultava fondamentale attivare, accanto alla costante attenzione alla dimensione operativa dei DPI (formazione a sostegno delle azioni di prevenzione e protezione, organizzazione del lavoro, ecc.), anche e soprattutto dei DPI emotivi, cioè investire sul clima sociale e relazionale delle CpA, garantendo, specialmente in un momento come quello della seconda ondata, spazi e momenti di socialità, in sicurezza (elemento fortemente sentito dai collaboratori), sostegno, riconoscimento e valorizzazione dell’impegno dei collaboratori e promozione di pratiche di protezione della salute per collaboratori e residenti. Ora però si pone la necessità di avanzare con delle importanti riflessioni condivise a più livelli professionali su quali fragilità e potenzialità abbia fatto emerge questa esperienza nel settore delle CpA e quale percorso si possa delineare verso una ridefinizione di un nuovo modello di presa in carico e di vita nelle CpA. A livello più operativo, occorre valutare i cambiamenti necessari di tipo strategico, organizzativo e manageriale, per mantenere e implementare, anche in situazioni simili, l’orientamento alla qualità del vivere in CpA, ricercando il giusto equilibrio tra sicurezza e protezione-autodeterminazione, vicinanza e relazioni significative.

 

 

 

Il sindacato e la sindacalizzazione degli operatori potrebbero contribuire a migliorare la situazione? E in che modo?

 

Assolutamente sì. Il migliorare della consapevolezza del significato della propria professione porta a comportamenti e ad attitudini che generano rispetto reciproco. L’esperienza di questa pandemia ha attivato un forte sentimento, comune a tutti gli operatori delle realtà coinvolte, di non essere compresi fino in fondo dall’esterno, con un impellente bisogno di riconoscimento esplicitato e chiaro a tutti i livelli: colleghi delle altre case, istituzioni, cittadinanza, per contrastare lo stigma vissuto sulla propria pelle attraverso i media e nella propria quotidianità (in coda alla cassa della Coop, incrociando il vicino di casa, …). Come nella domanda precedente, aprendo spazi di confronto reale, con aperture di valutazione di modalità concrete e specifiche per le diverse realtà che costituiscono il lavoro nelle CpA, per una comprensione del senso della pianificazione della costruzione alla domande poste precedentemente.

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