Il ritorno del secessionismo americano

di Fabrizio Tonello*

 

I numeri sono spietati: metà degli americani vorrebbe che il paese fosse tagliato in due. Non più Nord e Sud, come durante la guerra di Secessione del 1861, ma repubblicani da una parte e democratici dall’altra

Un nuovo studio del Center for Politics dell’università della Virginia sulle divisioni politiche, sociali e psicologiche tra gli elettori di Donald Trump e Joe Biden mostra che il 46% di chi aveva votato alle elezioni presidenziali del 2020 era almeno in parte d’accordo con questa affermazione: «La situazione in America ha raggiunto il punto in cui sarei a favore della secessione per formare un paese separato». Naturalmente, gli elettori di Trump vorrebbero tenersi gli stati a maggioranza repubblicana e quelli di Biden restarsene per conto loro negli stati a maggioranza democratica. Erano soprattutto i conservatori ad essere almeno in qualche modo d’accordo con questa scioccante affermazione (il 52%) mentre i progressisti sembravano più cauti verso l’ipotesi (41%).

 

Il Center for Politics è uno dei più rispettati centri di riflessione sulla politica americana, quindi non si tratta di un sondaggio commissionato da un settimanale, da leggere sotto l’ombrellone. Al contrario, si tratta di una survey molto seria, che dà la misura della polarizzazione politica negli Stati Uniti e dei pericoli per l’assetto costituzionale esistente. In fin dei conti, le costituzioni durano fino a che c’è un largo consenso sulla loro validità, poi scricchiolano e poi crollano.

 

Ad aggravare la situazione c’è il fatto che la stessa indagine ha portato alla luce diverse convinzioni autoritarie diffuse tra i cittadini americani: «sarebbe meglio per l’America se chiunque sia il presidente potesse prendere le azioni necessarie senza essere intralciato dal Congresso o dalla magistratura»; «è semplicemente intelligente diffidare delle persone che sono etnicamente o culturalmente diverse da te»; «non credo che farsi vaccinare contro il Coronavirus sia una buona idea, quindi chiedere alle persone di farsi vaccinare sarebbe una violazione inaccettabile della loro libertà personale»; preoccupazione che «possa essere impossibile ottenere un lavoro più pagato a causa dell’aumento degli immigrati che arrivano in America»; «sarebbe meglio se le fonti di notizie fossero censurate in modo che la gente non possa entrare in possesso di materiali distruttivi e disgustosi».

 

Sono risposte difficili da credere ma che spiegano perché il trumpismo come movimento autoritario di massa sia vivo e vegeto: neppure dopo il 6 gennaio la maggioranza di deputati e senatori repubblicani si sono decisi a condannare i «cugini di campagna» violenti che avevano sfondato le porte del Congresso e minacciato di impiccare Mike Pence e Nancy Pelosi. Al contrario, alcuni di loro avevano preso parte alla pianificazione del «golpe bianco», come la deputata del Colorado Lauren Boebert, che pretende di entrare alla Camera con la sua pistola al fianco, oppure quella della Georgia Marjorie Taylor Green, seguace della bizzarra setta QAnon, fanatica delle armi, antisemita e antimusulmana. Altri deputati e senatori sono ancora così affascinati (o terrorizzati) da Trump e dai suoi seguaci da evitare accuratamente di prendere le distanze dall’ex presidente e cercare invece il suo sostegno in vista delle elezioni di metà mandato del 2022.

 

Sia tra gli elettori democratici che tra quelli repubblicani ci sono ampie maggioranze che considerano non solo i dirigenti ma anche i semplici militanti del partito avverso «un pericolo chiaro e immediato per la democrazia americana». Logico, quindi, considerare l’idea di separarsene anche fisicamente. L’America è grande (9,8 milioni di km quadrati, ovvero 240 volte la Svizzera) quindi in teoria ci dovrebbe essere posto per tutti e, in effetti, un movimento verso l’autosegregazione su base politica era stato registrato dagli studiosi già una quindicina di anni fa, ma chiaramente si tratta di una tendenza di lungo periodo.

 

Il primo ad analizzare questa dinamica era stato il giornalista Bill Bishop, in un libro molto interessante, The Big Sort. Bishop, con l’aiuto dello statistico Robert Cushing, aveva notato che quando i cristiani evangelici traslocavano, si dirigevano verso contee dove il numero di fedeli era elevato. Approfondendo la sua indagine era giunto alla conclusione che repubblicani e democratici si stavano dividendo non soltanto nelle scelte di voto ma negli stili di vita, nei valori, nelle visioni del mondo. E, quando potevano, cercavano comunità di persone simili a loro.

 

Non è difficile, scriveva Bishop: «I democratici pensano che religione e politica non debbano mescolarsi. Guardano i programmi televisivi di informazione della domenica mattina e ascoltano la radio negli altri giorni. E’ più probabile che possiedano dei gatti. I repubblicani vanno in chiesa, passano più tempo in famiglia e possiedono armi da fuoco. Frequentano gruppi di studio sulla Bibbia ed è più probabile che possiedano cani».

 

I democratici tendono a vivere in città, i repubblicani in campagna, i democratici amano le metropoli, i repubblicani i boschi. I democratici sono favorevoli a un governo federale attivo, in particolare nella regolamentazione delle attività economiche, i repubblicani detestano non solo le tasse ma qualsiasi intralcio alla libera iniziativa. Entrambe le tribù preferiscono starsene per conto loro.

 

Possiamo avere un’immagine più precisa della tendenziale separazione su base politica degli americani guardando a due elementi: il numero delle contee «competitive», cioè quelle dove i due partiti maggiori sono separati da un margine inferiore a 5 punti percentuali nelle elezioni presidenziali: nel 1992 erano circa 800 su 3.139. Vent’anni dopo, nelle elezioni del 2012, erano diventate appena 275, oggi sono ancora meno.

 

Una di queste era la contea di Woodruff, un angolo rurale dell’Arkansas con circa 7.000 abitanti. Se nel 2012 i democratici prevalsero con un margine del 4,2%, nel 2020 i repubblicani hanno vinto con 27,8 punti di scarto. Lo stesso in Hidalgo County, Nuovo Messico, anche questa una contea rurale: se nel 2012 Obama vinse con 5 punti di scarto, nel 2020 Trump ha trionfato con oltre 15 punti di margine. In entrambi i casi le contee sono diventate feudi repubblicani.

 

Ma il movimento non è a senso unico: in Henri County, Georgia, il repubblicano Mitt Romney vinse con appena tre punti di vantaggio nel 2012, nel 2020 Joe Biden ha staccato Donald Trump di oltre 20 punti percentuali. Lo stesso in Anne Arundel County, Maryland: là dove il candidato repubblicano vinse di un soffio (0,08 punti) nel 2012, Biden ha vinto con un margine di 14,5 punti nel 2020. Due contee competitive che sono diventate solidamente democratiche.

 

Il secondo indicatore utile è la percentuale di americani che vivono nelle contee in cui uno dei due partiti è assolutamente dominante, ovvero dove uno dei due candidati maggiori alla presidenza ha vinto con oltre 20 punti percentuali di scarto. Nel 1976 solo il 27% degli americani viveva in questo tipo di contee «monocolore» mentre nel 1992 erano diventati il 39% e, nel 2012, il 50%. Nel 2020 erano il 58%. Gli americani, se possono, si spostano e quando lo fanno cercano gente che viva come loro, che voti come loro. Naturalmente una vera e propria tribalizzazione è impossibile, non fosse che per il gender gap: le donne votano democratico molto più degli uomini.

 

Tuttavia, quando si esce dai confini urbani di New York, Philadelphia, Miami, Cleveland, Houston, Los Angeles e Chicago, i democratici si trovano in territorio ostile: la loro base elettorale è sempre più confinata alle aree urbane. Analizzando i risultati dello stato di New York, bastione democratico per eccellenza, possiamo notare come Biden abbia stravinto nel Bronx (circa 1,5 milioni di abitanti) ottenendo oltre il 90% dei voti, mentre nelle contee rurali dello stato Trump ha maggioranze schiaccianti. Partendo dalla contea di Rockland in direzione Nord è possibile guidare fino al confine canadese senza imbattersi in alcuna contea a maggioranza democratica. Lo stesso avviene nel Kentucky: Elliott County, che dal 1869 al 2012 aveva sempre votato per il candidato democratico alla presidenza, nel 2016 ha votato per Donald Trump al 70% e nel 2020 ha di nuovo scelto Trump al 75% contro il 24% a Joe Biden.

 

Ovviamente, la questione costituzionale dell’Unione è stata risolta dalla vittoria del Nord nel 1865, un secolo e mezzo fa. Oggi, però, la divisione sembra essere altrettanto profonda, in particolare perché il partito repubblicano è diventato un movimento fascistoide, deciso a mantenere il suo potere anche con la forza, come ha dimostrato l’assalto al Congresso del 6 gennaio scorso. Pur avendo perso il controllo della Presidenza, della Camera e del Senato i repubblicani potrebbero riprendere il controllo del Congresso già nel 2022, grazie alla sovrarappresentazione del voto delle aree rurali: basti pensare che nelle 551 contee dove l’anno scorso ha prevalso Joe Biden vivono 197 milioni di americani, mentre nelle 2.588 contee dove ha vinto Trump ne vivono soltanto 130 milioni. Eppure in Senato c’è una perfetta parità (50 senatori di ciascun partito) e alla Camera i democratici hanno appena 5 seggi di maggioranza su 435.

 

La Brookings Institution, un altro rispettato centro studi ha scritto recentemente: «Per molti versi, la nazione si trova sull’orlo dell’abisso di una frattura politica che ha radici demografiche e che si è acuita in modi che non sono certo salutari per la nostra democrazia». Una descrizione eufemistica di una situazione in cui la paralisi legislativa è ormai la norma e in cui la violenza politica potrebbe scoppiare in qualsiasi momento.

 

 

 

 

* Fabrizio Tonello, politologo

(Università degli Studi di Padova)

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