Premi Nobel, tra salario minimo e dominio dell’ideologia neoliberista

di Francesco Bonsaver

 

Intervista a Sergio Rossi,

professore ordinario di macroeconomia ed economia monetaria all’Università di Friburgo

 

 

Professor Rossi, il Nobel dell’economia quest’anno è andato a tre ricercatori sperimentali dell’impatto di misure economiche promosse dallo Stato. Nel caso di David Card, i suoi studi riguardavano l’impatto di una crescita del salario minimo, dell’immigrazione sulla popolazione residente e gli investimenti nell’educazione. Sta cambiano il vento col riconoscimento della necessità dell’intervento statale nel libero mercato oppure questi Nobel s’inseriscono nel paradigma dominante neoliberale del meno Stato?

Il vento purtroppo non sta cambiando ma è destinato a rafforzarsi nella medesima direzione, vale a dire che quando l’economia mondiale sarà finalmente uscita dalla pandemia da Covid-19, i paesi che si reputano avanzati sul piano economico continueranno a spingere nella direzione dominante, che vuole «meno Stato e più mercato». Il loro pretesto sarà l’apparente necessità di ridurre il debito pubblico, fortemente aumentato in termini assoluti e rispetto al prodotto interno lordo a seguito del necessario intervento dello Stato nel sistema economico durante questa pandemia. Si osserva una piccola apertura mentale da parte di una quota minoritaria degli economisti schierati a difesa del pensiero dominante, nella misura in cui questi economisti accettano, volenti o nolenti, che lo Stato debba salvare il salvabile durante un periodo di crisi – sia essa di origine economico-finanziaria, come quella scoppiata nel 2008, o di origine sanitaria, come quella scoppiata all’inizio del 2020. Appena si intravvederà la fine di questa pandemia, tuttavia, questi economisti torneranno a ripetere che lo Stato deve limitarsi a garantire le migliori condizioni-quadro per assicurare la concorrenza all’interno del «libero mercato». Lo faranno con la metodologia di ricerca in voga, che ha portato anche all’attribuzione di svariati «premi Nobel» recentemente, ossia con la ricerca sperimentale, imitando la medicina, con la fallace ipotesi che il corpo sociale, cioè il sistema economico, possa essere analizzato come si fa con il corpo umano. In realtà, si tratta di una ipotesi errata, perché le variabili che interagiscono sul piano macroeconomico sono molto più numerose e complesse delle variabili che influenzano la salute umana. La ricerca sperimentale in economia è apparentemente valorizzata dall’affermazione che «i dati raccolti non mentono mai». Purtroppo, tutto dipende dalle definizioni adottate e dalla supposta direzione della causalità tra le variabili considerate sul piano macroeconomico.

 

David Card, uno degli studiosi premiati dal Nobel per l’economia di quest’anno, aveva studiato l’impatto dell’aumento nel 1992 del salario minimo nel New Jersey da 4,25 dollari l’ora a 5,05, scoprendo che questa misura non aveva comportato un impatto negativo sull’occupazione, e che anzi in alcuni casi l’effetto era stato positivo. È possibile trarre delle conclusioni macroeconomiche su 80 centesimi di aumento?

Le conclusioni cui giungono degli studi empirici sono valide, nella migliore delle ipotesi, soltanto per la fattispecie considerata. Si possono tuttavia trarre alcune linee guida per compiere delle scelte sia private sia pubbliche anche in altri casi concreti. Per esempio, le conclusioni cui giunse Card nel merito dell’aumento del salario minimo nel New Jersey possono essere facilmente confermate pure per quanto riguarda l’economia ticinese in generale, ma ci possono essere dei casi in cui il risultato è di segno opposto in quanto l’azienda che deve aumentare il minimo salariale potrebbe non essere in grado di finanziare questo aumento a causa della tipologia di attività o di altri fattori che le sono propri o che dipendono da elementi esterni a essa. Nel Ticino, recentemente, il dirigente di un’azienda intervistato dai media locali a seguito dell’attuazione della legge cantonale sul salario minimo non ha esitato nell’affermare che la sua azienda, il cui organico è formato unicamente da frontalieri, non è in grado di pagare un salario minimo di 19 franchi orari. Ciò non rappresenta un problema, perché se questa azienda cessa le proprie attività, l’aumento della disoccupazione colpisce anzitutto l’Italia, anche se da qui poi potrebbero scaturire delle conseguenze negative anche per l’economia ticinese o svizzera, sul piano del commercio internazionale o nel mercato del lavoro. Una cosa però è certa: se un’azienda aumenta il salario minimo e riduce proporzionalmente lo stipendio dei propri dirigenti – lasciando invariata la massa salariale –, ci saranno delle ricadute positive per questa azienda e per l’insieme dell’economia, in quanto i suoi lavoratori meno qualificati saranno più motivati e avranno una maggiore capacità di acquisto, a vantaggio delle attività orientate verso il loro territorio di residenza. Oltretutto, l’azienda sarà indotta a investire nel progresso tecnico per ridurre i propri costi di produzione tramite l’innovazione anziché il dumping salariale.

 

In Svizzera, stando alla sentenza del Tribunale federale sul caso di Neuchâtel, i cantoni sono autorizzati a fissare l’importo del salario minimo unicamente in base ai parametri di misura sociale e non di natura economica, poiché nella Costituzione primeggia il diritto alla libera contrattazione economica tra lavoratori e padronato. Quali insegnamenti possiamo trarre da questa impostazione giuridica?

Si tratta di una impostazione liberista, vale a dire che attribuisce alla pretesa «legge» della domanda e dell’offerta la contrattazione salariale, addirittura individualizzandola, cioè facendola funzionare a livello individuale anziché collettivo. Anziché attribuire una certa forza negoziale al sindacato della categoria di lavoratori coinvolti nella contrattazione salariale, questa impostazione giuridica spinge verso la contrattazione individuale, mettendo perciò a confronto ciascun lavoratore separatamente con la propria azienda, oltretutto senza alcun obbligo salariale minimo stabilito su criteri economici anziché sociali. La situazione è deprimente per i lavoratori coinvolti che non hanno alcun margine di negoziazione – né salariale né contrattuale – vista l’elevata disoccupazione, che sfugge in gran parte alle statistiche ufficiali. Le aziende riescono in tal modo a ridurre la massa salariale in quanto trasferiscono sulle spalle dei contribuenti al fisco una parte dei costi che queste aziende dovrebbero sobbarcarsi, invece di far pagare all’assistenza sociale quanto esse avrebbero dovuto versare ai loro dipendenti situati in fondo alla gerarchia aziendale. L’apparato giuridico è stato costruito sulla base dell’idea che le parti contraenti nel mercato del lavoro si trovino sullo stesso piano, vale a dire che sia il datore di lavoro sia il lavoratore hanno la stessa forza contrattuale, perché l’uno e l’altro sono in grado di rifiutare quanto propone la controparte. In realtà, se questa posizione paritetica vige sul piano giuridico, poiché qualsiasi lavoratore è libero di rifiutare un contratto di lavoro che fissa un salario inferiore alle proprie necessità e aspettative, sul piano economico la posizione dei lavoratori è evidentemente diversa da quella dei datori di lavoro, che dettano le condizioni economiche visto il livello di sottoccupazione della forza-lavoro disponibile a lavorare per uno stipendio insufficiente a condurre una vita dignitosa ai giorni nostri.

 

Allargando lo sguardo, è corretto affermare che vi sia una rimessa in discussione dell’ideologia neoliberista negli ambienti che contano veramente, la Banca Centrale Europea o del Fondo monetario internazionale? La crisi economica, aggravata dalla pandemia, obbliga a un ripensamento dell’approccio ideologico neoliberale degli ultimi decenni o tutto rimarrà immutato?

Finora non si osserva alcuna vera rimessa in discussione dell’ideologia neoliberista negli ambienti che influenzano l’evoluzione economica nazionale o internazionale. I dirigenti della BCE e quelli dell’FMI ignorano qualsiasi alternativa al pensiero dominante, anche se a volte «colorano di verde» alcune delle loro scelte per renderle maggiormente accettabili dalla popolazione interessata. È vero che all’interno di queste istituzioni molto influenti ci sono degli economisti critici nei confronti del pensiero dominante, che hanno scritto e pubblicato degli studi scientifici per allertare i decisori che è necessario cambiare rotta, sia nel mercato del lavoro sia nel sistema di produzione e di consumo. Queste voci fuori dal coro, tuttavia, sono ignorate nel migliore dei casi, o sono messe a tacere con delle pressioni dietro le quinte oppure con la minaccia di licenziamento. Conosco personalmente alcuni casi sia presso la BCE sia all’FMI dove degli economisti contrari al pensiero dominante si sono dovuti autocensurare per evitare delle ripercussioni negative per la loro occupazione o per la loro carriera professionale. La crisi finanziaria scoppiata nel 2008 sul piano globale, poi seguita dalla crisi economica e ora da quella legata alla pandemia dovrebbero portare a un ripensamento fondamentale dell’analisi economica sulla base della quale sono prese delle decisioni politiche o aziendali. Purtroppo ciò non è finora avvenuto neanche all’interno delle facoltà universitarie di istituzioni accademiche prestigiose nel mondo occidentale. Andare controcorrente non permette di essere nominati in cattedra, perché le cosiddette «migliori» riviste scientifiche non pubblicano dei lavori di ricerca contrari al pensiero dominante. Su questo piano esiste una notevole «prostituzione intellettuale», che scoraggia le giovani leve accademiche nel portare avanti dei lavori di ricerca che mostrano i maggiori difetti metodologici, concettuali, teorici ed empirici dell’ideologia neoliberista.

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