Il dado è tratto: si va ora alla guerra?

dal nostro corrispondente a Mosca Yurii Colombo

 

Il dado è stato tratto, e Putin ha deciso di giocarsi il tutto per tutto riconoscendo le due Repubbliche autoproclamate del Donbass. 

Che la scelta fosse difficile da prendere ed andava approvata in solido con tutto il gruppo dirigente che gli è stato accanto lungo gran parte della sua carriera è stato chiaro quando lunedì pomeriggio il presidente russo ha deciso di riunire il Consiglio di Sicurezza per ratificare una decisione che era già stata assunta qualche giorno fa.

 

Tutti gli uomini del “cerchio magico” di una vita, sono dovuti andare al microfono per dare il loro assenso. Il clima di incertezza e perfino di paura si coglieva però sulle facce di molti e si è espresso nel timidissimo tentativo del capo dei Servizi segreti per l’estero Sergey Naryshkin di rilanciare il dialogo diplomatico subito rintuzzato con durezza dallo stesso Putin. Non è da escludere, tra l’altro, che soprattutto nei circoli oligarchici la decisione di annessione delle due provincie del Donbass sia stata mandata giù come il più classico dei calici amari.

 

Le conseguenze alla City russa sono state – malgrado il 70% dell’economia sia ormai statale - devastanti. Sberbank e Gasprom perdevano in poche ore il 20% del loro valore, seguite da Rosneft e Aeroflot anch’esse in caduta libera.

 

La “speranza” che ora il conflitto possa restare nel Donbass appare una pia illusione e la crisi politica che si apre in Europa è la più drammatica dal 1945 per le possibili ricadute politiche, economiche, sociali. Ora, in retrospettiva, la stessa “crisi dei profughi” del Donbass (ormai in tutto il mondo diventata un’arma “ibrida” nella definizione dei rapporti di forza a livello internazionale), sarebbe stata evidentemente usata dal governo russo per non restare in mezzo al guado in una trattativa destinata solo a dare ulteriore tempo all’esercito ucraino per organizzarsi.

 

Nella decisione di rompere gli indugi c’è poi evidentemente la crisi definitiva della mancata realizzazione seppur parziale degli accordi di pace di Minsk. Zelensky infatti non appariva disposto a concedere uno status speciale di autonomia alle due provincie (che gli sarebbe costata la rielezione) mentre Putin avrebbe dovuto fare un complicato dietrofront a una annessione già, de facto, realizzata con la concessione del passaporto ai cittadini del Donbass (lo avrebbero preso già in 2 milioni) e l’integrazione della sua economia in quella russa già dallo scorso novembre.

 

Il discorso con cui il presidente russo ha annunciato il riconoscimento delle due Repubbliche è stato punteggiato da richiami “neoimperiali” e da un attacco frontale all’esperienza sovietica. Non tanto nei confronti dello stalinismo (la tragedia della collettivizzazione forzata delle campagne ucraine non è stata neppure citata) ma nei confronti della politica leniniana del “autodeterminazione dei popoli” che aveva condotto alla formazione dell’Ucraina come Repubblica indipendente nel quadro dell’Urss già nel 1922. Un lungo attacco rabbioso al bolscevismo a cui ha fatto da contraltare il richiamo all’epoca “aurea” dello zarismo e della “Grande Russia”. In alcuni passaggi Putin sembra aver quasi perso il senso della realtà: la Russia di oggi è sì una grande potenza militare ma ha un Pil dieci volte più piccolo rispetto a quello americano in termini assoluti ed è 48esima al mondo nella classifica del Pil procapite a parità di potere d’acquisto. Per questo, la scelta di “andare fino in fondo” rischia per il Cremlino di essere una vera e propria avventura che oscura le pur puntuali critiche del discorso del presidente russo al ruolo imperialista e neo-colonialista degli Usa ad Est e sul nefasto attorcigliarsi della nuova leadership ucraina dopo il 2014 in chiave ultranazionalista e reazionaria.

 

L’eventualità di una guerra, guardata con molto scetticismo fino a qualche giorno fa dalla popolazione russa, è diventata tangibilissima realtà con cui si fa i conti. I bar e ristoranti della capitale sono semi-deserti già da qualche giorno nella capitale: i moscoviti preferiscono risparmiare temendo un brusco peggioramento del cambio del rublo e la spada di Damocle di nuove sanzioni occidentali. Lunedì sera, sono stati da record gli ascolti della diretta del discorso di Putin, malgrado sia durato oltre un’ora.

 

Un fatto però è certo: non siamo di fronte all’entusiasmo nazionalistico come ai tempi della annessione/unificazione della Crimea del 2014 a seguito dell’insurrezione reazionaria della Maidan. Allora, malgrado le grandi proteste seguite alle presidenziali del 2012 che rielessero Putin tra le polemiche, si attendeva una ripartenza dell’economia del paese, un “nuovo balzo in avanti” dopo le grandi performances economiche (e relativamente anche sociali) del periodo 2000-2008. Oggi il clima è completamente diverso: l’economia è formalmente ripartita grazie agli alti prezzi degli idrocarburi degli ultimi mesi ma da anni il potere di acquisto dei lavoratori dipendenti e del “piccolo business” sono in calo. I grandi progetti di modernizzazione delle infrastrutture restano ai blocchi di partenza e la popolarità di Putin è talmente in calo che non si fanno neppure più sondaggi di opinione a questo proposito.

 

L’esercito russo ora potrebbe dare facilmente dare una “sculacciata” a quello ucraino sullo stile dell’azione in Georgia del 2008 per poi ritirarsi mentre è impensabile che possa realizzare un’occupazione dell’Ucraina per cui non ha la forza prima di tutto economica e che provocherebbe la reazione inevitabile della Turchia. Le conseguenze sarebbero comunque gigantesche e condurrebbero al completamento allineamento di Macron e Scholz dietro Biden, un’eventualità che lascerebbe pochissimi spazi di manovra a Putin, sul quale si possono dire tante cose meno che fino ad oggi non sia stato un’abile tattico capace di lavorare sulle contraddizioni del campo avversario.

 

Il settimanale tedesco Spiegel, la scorsa settimana, ha pubblicato un articolo in cui si annuncia la declassificazione di un documento britannico di trent’anni fa, ai tempi delle trattative per la “desovietizzazione” dell’Europa orientale, in cui si conferma che i paesi occidentali avrebbero realmente promesso allora a Gorbaciov il non allargamento della Nato ad Est. Cosa sia poi successo è bene illustrato dalla cartina che riproduciamo qui sotto.

Espansione della Nato dopo 1989.

In grigio i paesi “fondatori”, in blu i paesi che hanno aderito dopo il crollo del muro di Berlino

 

La promessa, soprattutto americana, di far entrare anche l’Ucraina nell’alleanza, sembra però ora più un pretesto che un detonatore della crisi visto che la sua entrata non è all’ordine del giorno sia per motivi tecnici sia per motivi politici di equilibri dentro l’Alleanza. L’Ucraina, del resto, il potenziale nuovo partner dell’Alleanza Atlantica, non sembra più farsi soverchie illusioni da questo punto di vista, preferendo concentrarsi su altri aspetti. Intervenendo alla Conferenza di Monaco sulla sicurezza il presidente ucraino ha chiesto ancora soldi alle potenze occidentali: “Datemi soldi incondizionati. Perché, quando ogni volta che ci vengono stanziati determinati importi, allora è necessario fare una, due, tre, quattro, cinque, sette, otto, dieci riforme? Guarda, c'è ancora la guerra. C'è un altro paese al mondo che ha un esercito così forte nell'est e sta facendo delle riforme?” Una richiesta che per qualche verso appare un ricatto visto che dopo il 2014 il paese slavo è stato letteralmente inondato di danaro occidentale: il debito estero ucraino supera l’80% del suo Pil annuale e solo qualche settimana fa l’Europa ha versato nelle esauste casse della Banca Centrale di Kiev altri 1,2 miliardi di euro.

 

In questo duello sembra quasi che tutti i contendenti (Zelensky-Biden-Putin) intendano spostare l’attenzione delle loro opinioni pubbliche dalle scottanti questioni interne, usare l’ipotesi bellica come un’ “arma di distrazione di massa”. Un gran gioco cinico se si pensa che le pedine sono milioni di persone comuni russe, ucraine e forse anche europee.