Ma tutti gli Ucraini vogliono veramente la Nato?

Vi proponiamo un articolo del nostro corrispondente da Mosca scritto pochi giorni prima dell'inizio della guerra per i nostri Quaderni.

 

di Yurii Colombo 

 

Le crescenti tensioni tra Ucraina, paesi della Nato e Russia degli ultimi mesi hanno fatto uscire dal torpore anche i più distratti mass-media internazionali che hanno iniziato a parlare di «nuova guerra fredda» in Europa. In realtà siamo già dentro (dal 2014 dopo la Maidan a Kiev e la guerra del Donbass) in una nuova, delicatissima, fase dei rapporti est-ovest che ha molti risvolti e possibili ripercussioni. Riassumiamo.

 

  • 1) La crisi in Ucraina del 2014 si chiuse con l’annessione/unificazione della Crimea da parte di Putin, la formazione nel Donbass di due repubbliche autoproclamate legate al Cremlino. Ciò produsse importanti ripercussioni: le pesanti sanzioni e relazioni diplomatiche tra Russia e Occidente sempre più difficili. Il presidente russo venne considerato da alcuni il vincitore del round ma solo per poco: l’integrazione della Crimea venne pagata dal Cremlino con la perdita di tutta l’Ucraina che da paese di frontiera si schierò decisamente dalla parte dell’Occidente.
  • 2) Da allora i rapporti Russia-Occidente non hanno fatto altro che peggiorare. Le trattative sul reintegro del Donbass nell’Ucraina (Formato Normandia) si sono arenate, gli avvelenamenti dell’ex spia Skripal e di Navalny – di cui sono stati accusati i servizi russi – hanno messo altra benzina sul fuoco, così come la grave crisi politica apertasi in Bielorussia nell’estate del 2020.

 

Negli ultimi mesi vi è stata una significativa accelerazione dopo una serie di scambi di accuse tra Nato e Russia su presunte violazioni dei confini, esercitazioni e ammassamenti di truppe sui confini dei due paesi ex-sovietici che non hanno fatto altro che riproporre in modo più pressante la soluzione del principale motivo di pressione in Europa. La scorsa estate, la dichiarata disponibilità della Nato ad integrare l’Ucraina (e la Georgia) nelle sue file ha dato un’accelerazione al confronto tra Russia e Nato (in cui con l’arrivo di Joe Biden gli Usa sono tornati a giocare il ruolo di pivot).

 

La decisa reazione russa è stata poco notata dai giornali ma non dal Pentagono: si tratta dell’integrazione de facto delle repubbliche «popolari» del Donbass nella Federazione russa a partire dagli accordi bilaterali dello scorso 17 novembre, che lasciano ben poche speranze a Zelensky di poter trattare direttamente. Non solo: il ministero degli esteri russo in attesa delle trattative che si sarebbero tenute a Ginevra con l’inizio nuovo anno, il 16 dicembre scorso, aveva pubblicato una «bozza d’accordo» in cui si afferma «La Russia e gli Usa (...) non dovrebbero dispiegare le loro forze armate e armi in aree in cui tale dispiegamento sarebbe percepito dall’altra parte come una minaccia alla loro sicurezza nazionale». Ma soprattutto si chiede alla NATO di escludere l’ipotesi un’ulteriore espansione verso est. Si tratta di una versione rivista e corretta della vecchia «dottrina Breznev», che prevedeva il riconoscimento di un’are di «influenza russa» nell’Est Europa. Ma se negli anni ’70 ciò implicava il riconoscimento del controllo degli Stati d’oltre cortina da parte sovietica, ora a Mosca ci si accontenterebbe di impedire a Kiev e Tblisi di allearsi militarmente all’Occidente. Insomma, per Putin l’Ucraina rappresenterebbe quella «linea rossa» che l’Alleanza Atlantica non dovrebbe varcare, pena la «rottura verticale dei relazioni». Difficile dargli torto anche da parte di chi non ha particolari simpatie per lo «Zar del Cremlino»: negli ultimi 24 anni, 14 stati dell’Europa orientale hanno aderito alla Nato in barba alle promesse (a parole) che erano state fatte a Gorbaciov ai tempi dell’unificazione tedesca.

 

Sono richieste che nel round di trattative a Ginevra a inizio anno, gli Americani si sono ben guardati dall’accettare. In realtà la Casa bianca, mentre si dichiara indisponibile a farsi porre condizioni, ha lasciato aperta la porta a una trattativa a più ampio raggio. «L’adesione dell’Ucraina alla Nato è improbabile nel prossimo futuro», ha sostenuto il presidente Usa il 20 gennaio, spiegando che per unirsi all’Alleanza, l’Ucraina deve fare molto lavoro dal punto di vista della democrazia e di una serie di «altre cose». Fuori di metafora significa che l’Ucraina dovrebbe abbandonare ogni richiamo alle ideologie neofasciste di Stepan Bandera (invise alla Polonia e alla lobby ebraica a Washington) ma garantire la possibilità di un accesso limpido al suo mercato per gli Occidentali, riducendo il tasso di corruzione interna. Rimandando sine die (ma senza escluderlo) l’ingresso nella Nato del paese slavo, gli Usa sperano di poter invece giungere a degli accordi con i Russi sui temi del controllo delle armi atomiche e dei «cieli aperti». È un’ipotesi che non piace a Volodomyr Zelensky, il presidente ucraino, il quale ha sostenuto che «attende dai partner occidentali di avere risposte in tempi certi».

 

Resta aperto anche il problema dell’approccio del popolo ucraino all’ingresso nell’alleanza occidentale. Secondo il sociologo ucraino Volodomyr Ischenko, «una stabile e solida maggioranza pro-Nato esiste solo nelle regioni occidentali. C’è, forse anche qualche pro-Nato nell’Ucraina centrale. Ma nelle regioni orientali e meridionali, la neutralità è più popolare che l’adesione alla Nato... Una correlazione tra il sostegno alla Nato e le diverse visioni dell’identità nazionale ucraina rende la questione particolarmente divisiva».

 

Nelle ultime settimane la tensione è continuata ad aumentare. Gli Usa hanno promesso che in caso assalto russo a Kiev le ripercussioni economiche sarebbero pesantissime. Si è parlato esplicitamente di allontanamento della Russia dal circuito finanziario SWIFT e sanzioni dirette contro il presidente russo. Sul terreno finanziario la Russia ha ben poche carte da giocare se non un ulteriore passo verso la ricerca di un’alleanza con la Cina a qualsiasi condizione e una crescente autarchia: due varianti che piacciono pochissimo all’opinione pubblica russa, in particolare quella europea. Allo stesso tempo si assiste a una vera e propria scissione all’interno dei circoli dominanti della Germania (il paese europeo che ha il maggiore interscambio commerciale con la Russia). Come testimoniato dalle dimissioni imposte al comandante della marina tedesca Kay-Achim Heino Schönbach dopo che aveva fatto coming out sostenendo, in un’intervista del 23 gennaio scorso, che «la penisola di Crimea non tornerà» e definito «una sciocchezza» l’ipotesi che Mosca potrebbe pianificare di destabilizzare l’Ucraina.

 

Alcuni osservatori sostengono che tutto finirà in una «crisi pilotata», in una versione in sedicesimi della crisi dei missili a Cuba mezzo secolo fa. Tuttavia, lentamente ma inesorabilmente le tensioni belliche nell’area slava stanno crescendo. Per diverse ragioni i popoli russi e ucraini non vogliono la guerra, non è ragionevole né razionale. Ma parlare di razionalità e ragionevolezza in un mondo dominato dal capitalismo ha poco senso.

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