di Guido Caldiron
Indagini Come l’ascesa al potere del nuovo Zar si è costruita attraverso la guerra e il nazionalismo. Dalla Cecenia all’assedio di Kiev. Il caso Budanov, «eroe militare» che stuprò e uccise una ragazza di 18 anni a Grozny.
Il ruolo di Dugin e delle tesi eurasiatiche nelle recenti campagne belliche.
Tra le prime a lanciare l’allarme, Anna Politkovskaja la giornalista che per questo fu uccisa da un killer il 7 ottobre del 2006 a Mosca.
Il 7 ottobre del 2006, la giornalista Anna Politkovskaja, la più nota cronista dell’era postsovietica, firma di punta della Novaja Gazeta, veniva ammazzata da un killer nell’androne del suo palazzo a Mosca. Aveva denunciato il pericoloso clima che stava montando in Russia e il modo in cui intorno al lungo e sanguinoso conflitto combattuto in Cecenia si stesse costruendo un nuovo nazionalismo che accompagnava l’ascesa al potere di Vladimir Putin, eletto per la prima volta nel 1999. Il suo omicidio avvenne il giorno del 54esimo compleanno di Putin; nessun rappresentante del governo russo prese parte ai suoi funerali. L’allarme lanciato da Politkovskaja, e che alla coraggiosa giornalista è costato la vita, risuona ancor più sinistro di fronte a quanto accade ora in Ucraina.
Nella primavera del 2000 il colonnello Yuri Budanov guidava il 160° battaglione corazzato dell’esercito russo di stanza a Grozny, in Cecenia. Il 26 marzo di quell’anno i suoi uomini prelevarono per «un interrogatorio» una ragazza del villaggio di Tangi Chu. Si chiamava Elza «Kheda» Kungaeva, aveva appena compiuto diciott’anni e non avrebbe più fatto ritorno a casa: il suo corpo sarà ritrovato in una discarica e l’autopsia stabilirà che era stata stuprata più volte prima di essere strangolata. Arrestato dopo la denuncia dei familiari della ragazza, Budanov fu incriminato per omicidio, sequestro di persona e abuso di potere, ma l’accusa ignorò lo stupro. Durante il processo, il colonnello ammise di averla uccisa, ma mentre «non era in sé»: fu condannato nel 2003 a dieci anni di carcere, invece dei trenta che rischiava, ma già all’inizio del 2009 fu rilasciato. La sua vicenda giudiziaria dividerà a lungo la società russa. Sostenuto da una parte dei vertici delle forze armate, Budanov divenne un simbolo per l’estrema destra e gli ultranazionalisti che lo ritenevano un capro espiatorio individuato dagli avversari dell’impegno bellico della Russia. Vladimir Zhirinovsky, già vicepresidente della Duma e leader dei «liberaldemocratici», nazionalisti e xenofobi, parlò di «processo politico», mentre altri partiti di destra proposero addirittura di candidare il colonnello.
IN PRECEDENZA, L’AVVOCATO Stanislav Markelov aveva fatto invano appello, a nome dei famigliari della vittima, perché l’assassino di «Kheda» non fosse perlomeno scarcerato anzitempo. Il 19 gennaio del 2009, pochi giorni dopo la liberazione di Budanov, Markelov fu ucciso a colpi di pistola insieme alla giornalista della Novaja Gazeta Anastasija Baburova, mentre usciva da una conferenza stampa nel cuore di Mosca. Presidente dell’Istituto Russo per lo Stato di Diritto, Markelov aveva difeso diversi oppositori del Cremlino, giovani antifascisti, cittadini del Caucaso accusati per via delle loro origini e molti giornalisti «scomodi» come la stessa Politkovskaja. Quanto a Baburova, al momento del suo assassinio stava lavorando a un’inchiesta sul neonazismo in Russia.
Per il duplice omicidio saranno condannati due neonazi legati al gruppo Unità nazionale russa, ma, come scrisse all’epoca dei fatti Astrit Dakli sul manifesto, il processo «ha lasciato aperti molti interrogativi e non ha pienamente convinto colleghi e parenti delle vittime; molti hanno pensato che la Procura avesse deliberatamente scelto di tener fuori dal processo proprio gli ambienti politico-militari legati a Budanov, centrando le indagini solo sui gruppi più marginali e ideologizzati». Perché, come aveva spiegato in articoli e libri Politkovskaja, ciò che accadeva in Cecenia illustrava anche quanto stava accadendo nella società russa.
INIZIATE DA ELTSIN NEL 1991 dopo la dichiarazione di indipendenza della Repubblica caucasica, le «guerre cecene» furono proseguite da Putin con sempre maggiore intensità tra il 1999 e il 2009, trasformandosi progressivamente in una «lotta al terrorismo», anche con il plauso dell’Occidente, contro i gruppi del fondamentalismo islamico, più tardi coinvolti nei terribili attentati al teatro Dubrovka di Mosca (2002) e nella scuola di Beslan nell’Ossezia del Nord (2004) che fecero centinaia di vittime. Una tragedia che ha provocato oltre centomila morti, una lunga serie di violazioni dei diritti umani e la distruzione quasi totale della città di Grozny. Proprio Politkovskaja, che si era recata più volte in Cecenia, intervistando sia militari russi che civili locali, aveva utilizzato la propria notorietà per evitare che quanto stava avvenendo passasse sotto silenzio.
La giornalista aveva scelto di raccontare ai russi la storia di «Kheda» e del suo carnefice che riteneva emblematica della pericolosa deriva attraversata dal Paese, «offuscato dalla propaganda». «La Russia ha pensato che quanto successo fosse giusto: Budanov aveva strangolato la ragazza vendicandosi su di lei, magari ingiustamente, dei guerriglieri ceceni», scriveva Politkovskaja, aggiungendo, «Perché non amo Putin? Perché continua a giocare con il mio Paese a dei giochi estremamente pericolosi. E il primo e il più pericoloso di questi giochi ha il vecchio nome di razzismo». In un Paese eternamente occupato a scovare dei nemici interni responsabili di tutto il suo malessere, spiegava la giornalista, il presidente trae la propria popolarità anche dall’attizzare costantemente il risentimento verso «gli stranieri» di una parte dei suoi concittadini. «Con il risultato che oggi la Russia di Putin produce, ogni giorno, dei nuovi fan dei pogrom. Le aggressioni contro i caucasici nei mercati della maggior parte delle nostre città sono diventate una terribile routine e la televisione non parla che delle più sanguinose».
NELLE «RETROVIE» DELLA GUERRA, la società russa, che conta per altro tra i propri cittadini decine di milioni di musulmani, era scossa, sullo sfondo di una mobilitazione permanente all’insegna del nazionalismo, da una violenta spirale razzista che si è spesso tradotta in un’autentica «caccia allo straniero», mentre diventava sempre più facile denunciare, o addirittura eliminare, i «nemici della patria» che si opponevano a tutto ciò. Una situazione che emerge dai rapporti stilati nell’ultimo quindicennio dalle organizzazioni internazionali per la tutela dei diritti dell’uomo come della libertà di stampa che hanno via via parlato di «razzismo fuori controllo» (Amnesty International), con centinaia di vittime, tra gli appartenenti alle minoranze etniche del Paese, delle violenze delle bande del suprematismo bianco, ultranazionaliste o neonaziste, lungamente tollerate, o hanno elencato le decine di giornalisti e appartenenti alle ong assassinati solo perché svolgevano il loro lavoro (Reporters sans frontières). In un simile contesto, gli attivisti dei gruppi di estrema destra sono passati dai poco più di 10mila nel 1999 ad alcune centinaia di migliaia oggi, facendo ad esempio della Russia uno degli epicentri dell’internazionale degli skinhead neonazisti.
E IL PROBLEMA, come ha sottolineato più volte Marlène Laruelle, una delle maggiori studiose delle ideologie di destra russe, docente a Sciences-Po a Parigi e alla George Washington University, è che la frontiera tra l’underground razzista e la politica ufficiale «resta spesso molto incerta». Sotto la guida di Putin, precisa Laruelle, «l’apparato presidenziale ha contribuito a sviluppare un nuova ideologia, attraverso dei programmi di Stato dedicati all’“educazione patriottica” a scuola e alla creazione di nuove festività e commemorazioni. Allo stesso modo si è costruito un vero culto dell’esercito e sono apparsi negli interventi istituzionali espliciti riferimenti alla religione ortodossa. Inoltre, che si tratti della carta stampata o della televisione, controllate dal Cremlino, o di settori apparentemente più autonomi come internet o il cinema, i media hanno giocato un ruolo fondamentale nella diffusione di questo nazionalismo e nella deriva xenofoba della società russa».
Questo il contesto nel quale è emersa un’area politica e culturale la cui traiettoria è ben illustrata dalla figura di Alexander Dugin, l’intellettuale spesso indicato come il trait d’union tra il Cremlino e l’estrema destra sovranista e postfascista dell’Europa occidentale, più volte invitato ad esempio in Italia da ambienti vicini alla Lega di Salvini. Già esponente del gruppo neozarista Pamjat e del circuito nazionalbolscevico degli anni Novanta, responsabile di riviste di estrema destra come Den e Elementy che hanno fatto conoscere a Mosca le idee di Julius Evola e di Alain de Benoist, capofila della Nouvelle Droite, Dugin si è trasformato nell’ultimo decennio in una delle personalità intellettuali più vicine, a vario titolo, all’establishment putiniano, molto legato alle forze armate come ai vertici del partito Russia Unita e in grado di influenzare spesso il dibattito in rete. L’orizzonte ideologico che l’ex docente di Sociologia all’Università Lomonosov ha contribuito a tracciare può essere riassunto nei termini di una «rivoluzione conservatrice» all’interno e di una nuova proiezione imperiale all’esterno del Paese.
Al centro delle teorie di Dugin riemergono le tesi «eurasiatiche», apparse negli ambienti dei russi bianchi fuggiti dopo il 1917, mescolate in qualche modo con il nazional-comunismo che iscrive anche l’Urss di Stalin nel ciclo della grandezza perduta del Paese, in base alle quali la Russia rappresenta uno spazio a sé stante tra l’Occidente e l’Asia a cui spetta un ruolo di primo piano nella geopolitica internazionale e uno spazio territoriale da riconquistare. Dugin ritiene che il Cremlino stia applicando una «filosofia politica eurasiatica» che si fonda sull’«integrazione dello spazio post-sovietico», passando dalla Bielorussia al Kazakhstan fino a Moldavia e Ucraina.
QUANTO ALLA SOCIETÀ RUSSA, tale progetto è legato a detta di Dugin all’idea che «un impero di dimensioni continentali, esige un proprio modello di direzione. Imitare le norme della “democrazia liberale” europea è insensato, impossibile e dannoso. La democrazia occidentale non rappresenta un criterio universale. La partecipazione del popolo della Russia alla direzione politica non rifiuta la gerarchia e non deve essere formalizzata in strutture partitico-parlamentari».
Una visione che, ben prima dell’invasione dell’Ucraina, è sembrata riemergere nelle scelte del leader del Cremlino. Come illustra, tra i tanti, un passaggio del discorso alla nazione pronunciato da Putin alle vigilia dei giochi olimpici invernali di Sochi del 2014. «Il mondo diventa sempre più contraddittorio e agitato. – spiegò Putin in quell’occasione – Oggi molti Paesi stanno rivedendo le loro norme morali ed etiche, cancellando le loro tradizioni nazionali in nome dell’equivalenza delle diverse opinioni e idee politiche, rischiando per questa via anche il riconoscimento dell’equivalenza tra il bene ed il male». In queste condizioni, aggiunse, «si rinforza la responsabilità storica della Russia. Noi difendiamo la famiglia, sosteniamo la conservazione dei valori tradizionali e della vita religiosa, sia sul piano fisico che spirituale: valori che da millenni costituiscono la base morale e spirituale della civiltà di ogni popolo. Non pretendiamo l’appellativo di superpotenza, se con questo si intende un’ambizione di egemonia mondiale o regionale. Il nostro progetto internazionale si basa sull’uguaglianza e gli interessi economici. Nessuno deve però illudersi di superare militarmente la Russia, non sarà permesso, non l’accetteremo mai».
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