Guerra in Ucraina, intervista a Emiliano Brancaccio

di Daniele Nalbone - Micromega

 

"Un nuovo ‘whatever it takes’ per salvare la pace in Europa è possibile. Sancire la fine dell’espansionismo NATO e UE a est. Ma vedo troppi elmetti in testa e cervelli già spenti, tra putiniani senza ritegno e atlantisti senza memoria”.

 

Micromega è tra le primissime testate ad aver fornito una cronaca diretta dell’attacco delle truppe russe all’Ucraina, con Valerio Nicolosi nostro inviato a Kiev [qui tutti i podcast dall’assedio di Kiev]. Ma oltre alla cronaca serve l’analisi. Per questo intervistiamo Emiliano Brancaccio, economista e oggi intellettuale di riferimento del pensiero critico in Italia, che di guerra – economica e non solo – ha ampiamente trattato nel suo ultimo libro: “Democrazia sotto assedio”. Brancaccio propone una linea alternativa di gestione della crisi internazionale.

 

 

Professor Brancaccio, le forze politiche italiane sono schierate contro la Russia. Non mancano però i filo-russi che elogiano l’attacco di Putin come segno di spregiudicata realpolitik. Lei cosa pensa?

La Russia si è macchiata di un’infamia di cui noi occidentali siamo stati cattivi maestri per anni, dalla Jugoslavia all’Iraq: ossia, aggredire altri paesi per distruggere e controllare. Putin è anche ricorso alle tipiche ipocrisie che abbiamo usato noi nel recente passato per giustificare le peggiori nefandezze, quando ha definito l’assalto all’Ucraina una mera “operazione di polizia”. Elogiare l’invasore russo che imita il peggio del militarismo occidentale sarebbe dunque un atto inverecondo. Per le stesse ragioni, però, non si può dar credito a quei politici nostrani che in queste ore non riescono a far meglio che proporci linee d’azione più ispirate a Rambo che alla diplomazia. In un momento così cupo, il ceto politico italiano dovrebbe piuttosto interrogarsi sulle proprie responsabilità storiche.

 

Di quali responsabilità parla?

Dopo il crollo dell’URSS, la NATO garantì che non si sarebbe espansa con i suoi missili e i suoi soldati fino ai confini russi. La promessa non è stata mantenuta: nell’arco di un trentennio, ben dieci degli ex paesi del patto di Varsavia sono stati inglobati nella NATO e altri sono stati convocati in sala d’attesa. Il risultato è che le truppe puntate contro Mosca hanno avanzato di 1500 chilometri, potremmo dire da Berlino fino a Tallin. Assorbendo anche l’Ucraina, la NATO avrebbe messo altri cannoni sulla linea del confine russo. Sono rari i responsabili della politica italiana che hanno ammesso che l’intenzione dell’attuale governo ucraino di entrare nella NATO andava subito scoraggiata se non si voleva accendere la miccia di una nuova guerra in Europa. La grande maggioranza dei nostri esponenti istituzionali ha invece irresponsabilmente assecondato le ambiguità imperialiste degli americani su questo tema. Alla fine, sempre in una logica imperialista, i russi hanno reagito e la guerra è scoppiata. L’Italia ha responsabilità internazionali non trascurabili, ed è oggettivamente correa di questa situazione. Draghi e Di Maio dovrebbero innanzitutto ammettere che la linea dell’ambiguità sull’espansionismo NATO a est si è rivelata catastrofica.

 

Ma l’Ucraina non ha il diritto di decidere autonomamente la sua politica estera? Il fatto che gli ucraini non possano scegliere liberamente le loro alleanze non è un segno di quella che nel suo libro lei stesso ha definito un’epoca di “democrazia sotto assedio”?

Alla base di ogni guerra moderna c’è sempre qualche forma di crisi democratica. È chiaro che gli ucraini hanno diritto di decidere la propria linea di politica estera. Ma come accade in altre terre di confine, la democrazia ucraina è lacerata da anni intorno alla questione del posizionamento strategico della nazione. Janukovyč aveva una visione, Zelenskyj esprime una posizione opposta. È una spaccatura irrisolta che ha alimentato la crisi economica ucraina e ha poi assunto i tratti di uno scontro irriducibile tra fazioni, di cui la strage di civili a opera di milizie neonaziste avvenuta a Odessa o le violenze nel Donbass sono soltanto alcuni esempi. Il conflitto è così violento da avere avvelenato le stesse istituzioni democratiche, con denunce sistematiche di brogli elettorali e di interferenze straniere dall’una e dall’altra parte. Il dramma più sorprendente, però, è un altro: la crisi democratica non investe solo la fragile Ucraina o i regimi dell’est, colpisce anche i processi decisionali delle nostre democrazie liberali.

 

In che senso?

Dalle nostre parti, ci siamo mai collettivamente interrogati sulle conseguenze dell’espansionismo NATO a est? Possiamo dire che in Occidente vi sia stato un aperto dibattito sull’ipotesi che, dopo l’annessione delle repubbliche baltiche, la NATO arrivasse anche più a sud, a lambire gli altri confini della Russia, col rischio di scatenare una reazione di quest’ultima? No, dobbiamo ammettere che non c’è stata nessuna seria discussione pubblica intorno a questi temi decisivi. Non abbiamo mai discusso del fatto che stavamo allargando il nostro spazio militare, smentendo le promesse post 1991 e snaturando la funzione originaria della NATO. Il risultato è che ora c’è una nuova guerra. Anche questo è un sintomo di crisi della democrazia. La nostra.

 

Lei dunque ritiene che l’aggressione russa fosse prevedibile. Una tesi simile è stata avanzata anche da ex esponenti delle istituzioni, da Romano Prodi a Sergio Romano. Altri commentatori, però, considerano questa di Putin una mossa del tutto inattesa, l’azzardo di un pazzo…

Quasi sempre, chi parla di “pazzi al potere” è solo uno che pretende di dire la sua senza aver capito nulla. La categoria interpretativa del “pazzo” non funziona nemmeno per afferrare le origini dell’orrore nazifascista, figurarsi per esaminare la violenza russa di queste ore. Chiavi di lettura così infantili non servono a niente.

 

Lei vuole dire che la guerra è un fatto “razionale”?

Voglio dire una cosa che forse sfugge alle menti semplici che opinano sui grandi media, ma che fino a qualche tempo fa era patrimonio scientifico di tutti, dai marxisti, ai liberali, ai teorici della realpolitik. Mi riferisco al fatto che se restiamo fermi alla categoria infantile dei “pazzi al potere”, allora assieme a Putin dovremmo annoverare tra i “pazzi” anche il nutrito gruppo di oligarchi militar-industriali di cui lui rappresenta gli interessi. E poi dovremmo aggiungere alla lista dei “pazzi” anche Clinton, Bush Jr., e la massa di responsabili politici delle liberal-democrazie che hanno allegramente avallato l’espansione militare NATO fino ai confini russi, sotto la spinta degli oligarchi occidentali impazienti di fare nuovi affari in quelle zone. Come vede, la lista dei “pazzi” si allungherebbe un po’ troppo per avere un minimo di efficacia euristica.

 

Ma allora, come va interpretata la situazione?

Il punto è che la storia del capitalismo è determinata da forze oggettive frutto di complesse combinazioni di decisioni multiple. Sotto questa visione, Putin non è pazzo, è peggio: è il pezzo vivente di un’equazione del capitalismo oligarchico russo, da anni in contraddizione con le equazioni che esprimono le oligarchie capitalistiche occidentali. La razionalità capitalistica di questi singoli interessi divergenti va a comporre meccaniche intricate, che per eterogenesi dei fini possono facilmente sfuggire di mano e condurre alla follia di una catastrofe bellica generale. Così, per esempio, anche quella che nasce come circoscritta operazione di “polizia” può alla fine portare a un conflitto su vasta scala e senza ritorno. Dunque, la pazzia si insinua certamente nell’inviluppo della storia, ma come fatto totale, come “fallimento di sistema”.

 

Quale “fallimento di sistema” ha portato a questa guerra?

È un errore di previsione sulle tendenze generali del capitalismo. È l’illusione di Fukujama e altri secondo cui, dopo il crollo dell’URSS, la cosiddetta globalizzazione guidata dall’unipolarismo americano sarebbe durata in eterno, portando pace e prosperità nel mondo. In realtà le cose sono andate molto diversamente. La globalizzazione non ha fatto altro che accentuare lo scontro internazionale tra capitali, creando continuamente vincitori e vinti, con i primi che liquidano o fagocitano i secondi. Si chiama “centralizzazione del capitale” in sempre meno mani, e ha prodotto una conseguenza sconvolgente: nella violentissima competizione globale, gli Stati Uniti non hanno affatto guadagnato ma hanno perso terreno rispetto ai principali paesi concorrenti, in termini di produzione, bilancia dei pagamenti, posizione netta sull’estero.

 

Con quali effetti?

In una prima fase gli americani hanno reagito a questo indebolimento con un surplus di aggressività espansionista. Ma dalla grande crisi del 2008 hanno dovuto correggere il tiro, con politiche protezioniste sul versante economico e un sofferto arretramento militare nello scacchiere geopolitico mondiale. Le ambiguità sull’ingresso dell’Ucraina nella NATO non sono altro che un sintomo di questa complicatissima ritirata americana. In quest’ottica, la guerra di aggressione lanciata dai russi è uno spartiacque: potrà accelerare la ritirata statunitense oppure potrà scatenare la reazione feroce di un blocco americano che non si rassegna alla perdita di egemonia. In un caso o nell’altro, sarà una fase altamente instabile, che per certi versi rievoca il declino dell’imperialismo britannico del secolo scorso. Insomma, dobbiamo metterci in testa che le basi strutturali dell’unipolarismo americano sono crollate da tempo. La dinamica del capitalismo ci ha già catapultati nel mezzo di una nuova epoca, ancor più caotica e pericolosa, che chiamerei di “multipolarismo oligarchico”.

 

Chi rischia di più in questa nuova fase?

La caratteristica chiave della nuova fase è quella che ho definito “centralizzazione geopolitica dei capitali”: ovvero, non più aperta a livello globale ma più chiusa dentro i confini di ciascuna area geopolitica, soprattutto con l’America a praticare una sorta di “neo-trumpismo” senza Trump, fatto di nuovi limiti agli affari verso Russia e Cina. Il mutamento di fase, quindi, colpirà principalmente le economie situate a cavallo di queste tre aree in lotta, ossia danneggerà soprattutto i paesi che hanno sviluppato un’integrazione economica forte con tutte e tre le aree. Se osserviamo i dati, l’Italia purtroppo è una di queste terre di mezzo, che io chiamo “i crocevia della centralizzazione”, che soffriranno di più il cambio di epoca.

 

Come se ne esce? Le sanzioni sono utili? La cacciata della Russia dal sistema di pagamenti swift può aiutare?

La storia ci dice che queste sanzioni non fermano le aggressioni militari. Rendono solo più costosi e più difficili i processi di integrazione capitalistica che si situano a cavallo tra le aree geopolitiche in lotta. Quindi, gli strumenti sanzionatori aiutano non a “uscire” dalla nuova fase di conflitto, ma semmai a “entrarci” più rapidamente.

 

Situazione angosciosa. C’è qualcosa che possiamo concretamente fare? Il nostro problema è l’appartenenza alla NATO?

Guardi, io ho seguito sempre con interesse la battaglia della sinistra per l’uscita dell’Italia dalla NATO e per un neutralismo attivo e pacifista. È una posizione antica ma tuttora dotata di ragioni, direi anche costituzionali, che un giorno potrebbe tornare d’attualità in un paese che sarà sempre più “crocevia” della nuova epoca di conflitto multipolare. Ma se lei mi chiede cosa è realistico fare in queste ore di tremenda angoscia, allora la questione è un’altra.

 

Quale?

Penso che assieme alla Germania e ad altri paesi “crocevia”, avrebbe senso se l’Italia invertisse la rotta poco meditata che è stata intrapresa negli ultimi giorni. Con il cancelliere tedesco Scholz, Draghi potrebbe chiedere pubblicamente all’alleanza atlantica di sottoscrivere che non approverà più ulteriori annessioni nella NATO, né dell’Ucraina né di altri paesi confinanti. E potrebbe contestualmente smentire von der Leyen e proporre alla UE una totale inversione di marcia: chiudere la stagione fallimentare degli allargamenti a est. Si possono ufficializzare queste dichiarazioni dando contestualmente a Putin un ultimatum per ritirare immediatamente le truppe dai territori invasi, pena una futura escalation del coinvolgimento NATO ai confini e una centralizzazione geopolitica accelerata, diciamo pure “senza prigionieri”. Se Draghi e gli altri si muovessero in questa direzione, sarebbe un sussulto di razionalità collettiva contro la follia imperialista che fino a oggi ha dominato i due campi in lotta. Sarebbe una sorta di nuovo “whatever it takes”, questa volta per salvare in extremis la pace in Europa, per oggi e soprattutto per il futuro.

 

Crede che Draghi e gli altri andranno in questa direzione?

Ne dubito. In Italia e altrove, vedo tanta voglia di indossare gli elmetti, schierarsi da fedeli alfieri e smettere di pensare. È l’ultimo stadio delle tendenze del capitalismo oligarchico, che rende la mentalità dei banchieri sempre più simile a quella dei soldati. Temo che si farà stretto lo spazio di manovra dei nemici sia dell’aggressione russa che dell’espansionismo NATO: vale a dire, dei soli, concreti costruttori di pace.

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