Rojava sotto il fuoco incrociato dell’Isis e dei caccia turchi

di Chiara Cruciati

 

Il più imponente assalto dello Stato islamico nella Siria del nord-est dal marzo 2019 è arrivato insieme alla neve. Il freddo ha avvolto l’intera regione, ha coperto di bianco Istanbul, Amman, Gerusalemme. E anche Hasakah, alle prese con la riapparizione di un incubo in carne e ossa: il 20 gennaio scorso centinaia di islamisti hanno attaccato la più importante delle città orientali del Rojava.

Nel mirino un luogo simbolico, ma soprattutto strategico: la prigione di Sina’a, nel quartiere Ghiweiran, dove da anni sono detenuti 5mila membri di Daesh, tra cui 7-800 bambini-soldato, foreign fighters e i papaveri dell’organizzazione.

 

Dal marzo 2019, dalla vittoria delle Forze democratiche siriane (Sdf) nella battaglia di Baghouz – in cui cadde Lorenzo Orsetti, combattente italiano internazionalista – Daesh è stato privato della sua entità territoriale, già ridotta ai minimi dal 2017, dalla battaglia di Tal Afar in Iraq che a dicembre di quell’anno portò Baghdad a dichiarare la fine dell’occupazione islamista. Era iniziata tre anni prima, con la presa della siriana Raqqa e dell’irachena Mosul, le due capitali dell’organizzazione che si sognava Stato. Per qualche tempo uno Stato l’ha costruito, con le sue tasse, le sue leggi interne, le sue esportazioni.

 

La sconfitta del progetto territoriale del «califfo» Abu Bakr al-Baghdadi a Baghouz non ha significato però l’evaporazione dell’organizzazione. Come un camaleonte, si è resa invisibile. Alla gestione «statale» ha sostituito la guerriglia, alla struttura «governativa» ha sostituito una rete di cellule sparse nel deserto tra Siria e Iraq. La macchina della propaganda è rimasta, seppur meno complessa di quella degli anni d’oro, quando riusciva a produrre video hollywoodiani, videogame, riviste patinate.

 

La sua capacità militare l’ha dimostrata il 20 gennaio scorso, con un salto di qualità enorme rispetto agli attacchi kamikaze che in questi anni hanno preso di mira le Sdf e le comunità civili siriane. Attacchi limitati, pochissimi uomini. Ad Hasakah il registro è cambiato: l’operazione – secondo le Sdf – sarebbe stata programmata per sei mesi, un lavorio sotterraneo di raccolta di intelligence e creazione di cellule di miliziani molto esperti. La sera del 20, ci spiegano dal Rojava Information Center (Ric), autobombe sono saltate in aria vicino all’ingresso principale e sui muri perimetrali del complesso, permettendo l’evasione di qualche centinaio di detenuti e la consegna di armi ai prigionieri che avevano iniziato una vera e propria sommossa.

 

Sono seguiti dieci giorni durissimi, di scontro urbano con i miliziani nascosti nelle case dei civili, bombardamenti aerei della coalizione a guida Usa (che ha partecipato anche con i cecchini) e sedazione della rivolta, mentre ad Hasakah veniva imposto il coprifuoco totale (esteso di notte anche al resto della Siria del nord-est). Sono rimasti aperti solo i servizi essenziali, forni, cliniche, stazioni di benzina e di distribuzione delle bombole a gas, necessarie a sopportare le basse temperature invernali.

 

Almeno 6mila gli sfollati, fatti evacuare dalle Sdf lontano dai quartieri epicentro dello scontro. Molti hanno partecipato all’operazione, come ci riporta un volontario italiano in Rojava, Tiziano, citando «le forze di autodifesa, una delle espressioni del confederalismo democratico, sorte intorno alle comuni di quartiere». Il bilancio finale è di 374 islamisti, 77 membri dello staff della prigione presi in ostaggio, 44 combattenti delle Sdf e quattro civili uccisi.

 

Poi c’è quello politico: l’Isis esiste ancora. È solo in attesa di un’opportunità: l’eventuale evasione dei suoi «quadri» avrebbe cementato la ricostruzione della macchina jihadista. «Le Sdf hanno confiscato documenti e raccolto confessioni che dimostrano che altre cellule Isis stavano pianificando attacchi su larga scala – ci riporta il Ric – nel campo di Al Hol, a Shaddadi, a Deir ez-Zor, come parte di un più ampio piano di occupazione di un territorio per ‘il secondo Stato islamico».

 

L’Isis esiste ancora e ha «padrini» importanti, diretti e indiretti. Tra questi c’è la Turchia, con strumenti diversi: se droni turchi nei primi giorni di battaglia hanno deliberatamente colpito un convoglio delle Sdf partito da Tel Temer per portare rinforzi, alcuni islamisti catturati hanno detto di essere arrivati da Gire Spi e Serekaniye, le città del Rojava che la Turchia occupa tramite i suoi proxy (milizie islamiste). È lì che si sono organizzati, da lì hanno lanciato il loro attacco.

 

L’Amministrazione autonoma – il sistema politico nato dalla rivoluzione curda del 2012 sulla base del confederalismo democratico, teorizzato dal leader del Pkk, Abdullah Ocalan – non ha dubbi: Ankara usa lo Stato islamico per destabilizzare i cantoni della Siria del nord-est. E dove non riesce Daesh – il cui tentato assalto è stato disinnescato dalle Sdf – arrivano i caccia turchi. A pochi giorni dalla battaglia di Hasakah, il comando militare di Ankara ha lanciato l’operazione «Aquila d’inverno», una serie di bombardamenti e operazioni via terra che dal primo febbraio hanno colpito in contemporanea i luoghi simbolo del confederalismo democratico: la siriana Rojava, l’irachena Shengal e il campo profughi curdo di Makhmour, nel Kurdistan iracheno. Decine le vittime.

 

Sessanta caccia hanno bombardato le regioni settentrionali di Siria e Iraq, in palese violazione delle sovranità nazionali e degli spazi aerei. La sera del primo febbraio il ministero della Difesa di Ankara parlava della «neutralizzazione di un gran numero di terroristi», «il Pkk e i suoi affiliati». Tra le macerie di una centrale elettrica a Derik, delle case dei villaggi ezidi colpiti a Shengal e di quelle di al-Bab, sono morte almeno 25 persone, tra civili e forze delle unità di autodifesa locali.

 

Secca la nota dell’Amministrazione autonoma della Siria del nord-est: «Visto che lo Stato turco ha fallito nell’aiutare la resurrezione dell’Isis, ha lanciato raid simultanei su Shehba, Shengal, Makhmour e Derik. La Turchia vuole mandare in frantumi la stabilità regionale e pavimentare la via al terrorismo».

 

Non è la prima volta che i luoghi che hanno fatto da culla teorica e pratica al confederalismo democratico finiscono nel mirino turco. Le operazioni si susseguono da decenni, con epicentro le montagne di Qandil, rifugio politico e militare del Pkk. Fin dal 1992 con l’operazione «Iraq del Nord», seguita da «Acciaio» nel 1995, «Martello e Alba» nel 1997 e così via fino alle più recenti «Scudo del Tigri» nel 2018, «Artiglio» nel 2019 e «Artiglio del tigre» nel 2020. In mezzo l’occupazione militare, nel 2018, del cantone curdo-siriano di Afrin, e quella di Gire Spi e Serekaniye nell’ottobre 2019.

 

«Se c’è stato un momento in cui Daesh ha smesso di essere un pericolo importante in Siria è stato solo tra il marzo 2019, dalla liberazione di Baghouz, all’ottobre 2019 quando la Turchia ha occupato un pezzo di Rojava – aggiunge Tiziano – Da quel momento gli attacchi di Daesh sono ricominciati e sono andati in crescendo sia nel numero che nell’importanza degli obiettivi. A Deir ez-Zor sta reclutando nuovi miliziani. Esiste un supporto indiretto dalle zone occupate dalla Turchia e anche diretto: i raid aerei su altre zone del Rojava che ha distolto le Sdf da Hasakah e i droni contro i convogli dei combattenti».

 

E il peso insopportabile di decine di migliaia di prigionieri islamisti e dei loro familiari resta sulle spalle dell’Amministrazione, provata dagli attacchi jihadisti, dall’occupazione militare turca e dall’isolamento che la rende finanziariamente fragile. Di conseguenza restano in piedi anche le richieste alla comunità internazionale: il rimpatrio nei rispettivi paesi dei foreign fighters (spesso i più radicali e ideologizzati), la costituzione di un tribunale sovranazionale che giudichi i crimini dell’Isis e i suoi responsabili e, infine, il riconoscimento politico dell’autonomia nata nel 2012, l’unica forza capace di costringere Daesh alla ritirata.

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