Il Molino e le macerie delle istituzioni

di RedQ

 

La questione Molino si è rivelata un buon indicatore dello stato di salute istituzionale e politico cantonale. I confini del «cosa sia possibile immaginare» nei limiti del socialmente accettabile evolvono col tempo, seppur lentamente. 

Demolire nottetempo la sede di un centro sociale autogestito, più precisamente lo stabile in cui gli occupanti vi dormivano, sarebbe stato considerato politicamente inaccettabile solo un decennio fa.

 

Certo, «radere al suolo quel covo di zecche» faceva parte da tempo dell’immaginario di alcuni politici di rilievo, leghisti in particolare. Norman Gobbi lo sognava da anni, al pari del consigliere nazionale e municipale luganese Lorenzo Quadri. In questi vent’anni, la loro presa del potere si è costruita sulla contrapposizione all’altro. Che fosse Berna, il frontaliere, il migrante, i ro$$i, i fuchi ambientalisti poco importa. L’essenziale era avere un bersaglio su cui costruire odio e successo elettorale. Ancora oggi definiscono «governicchio» il Consiglio di Stato, pur essendo da anni la maggioranza relativa al suo interno.

 

L’importanza del contesto sociale in cui è maturata l’idea della demolizione, l’ha ben esplicitata Christian Marazzi alla conferenza organizzata dal portale Naufraghi. «È importante sottolineare la dimensione strutturale di questo processo. Oggi siamo di fronte a un potere della polizia, un potere fascistoide, che si è costruito sistematicamente e scientemente a partire dall’arrivo di un personaggio al Consiglio di Stato e che ha fatto della lotta contro il migrante, il richiedente l’asilo, dei più deboli della società in generale, un bersaglio trasformandolo in un nemico pubblico. Da qui al considerare i molinari alla stessa stregua, il passo è estremamente breve. Un processo politico che ha portato il potere istituzionale ad essere sovranista, leghista e razzista, rappresentato da coloro che oggi sono al governo a Lugano e Bellinzona».

 

Sarebbe però ingiusto attribuire tutti i «meriti» ai soli leghisti. Affinché si spostino i limiti del politicamente accettabile, altre forze sociali devono contribuirvi. O perlomeno non opporvisi. La demolizione intesa come gesto simbolico del radere al suolo il diverso, sarebbe stata considerata un atto prevaricatore inaccettabile, finanche fascista, da chi si rifà al pensiero illuminista e vota liberale. Lo sarebbe stato per la maggioranza dei liberali ticinesi, non solo dei radicali. Questo fino a un ventennio fa. L’erosione dei voti e la conseguente perdita del potere del Partitone, lo ha portato a sposare sempre più la narrazione leghista vincitrice.

 

Ma le mutazioni dei liberali locali sono il frutto di un processo globale, col trionfo del neoliberismo su scala mondiale, dei liberisti sui liberali. Il riflesso di queste mutazioni planetarie fan sì che di esponenti radicali di rilievo nel partito locale non se ne vedano più da tempo.

 

Ed è su questa tela di fondo sociale che demolire lo spazio abitativo dei molinari diventa accettabile, o perlomeno tollerabile, in ampi strati del potere istituzionale saldamente in mano a leghisti ma soprattutto a funzionari liberali. Certo, qualche sussulto d’indignazione l’ha provocata. Pensiamo al comunicato del gruppo liberale cittadino all’indomani della demolizione, dove sconfessò l’agire della sua seconda rappresentante nell’esecutivo luganese. Ma tutto si fermò lì.

 

Per attuare la demolizione, son necessari una serie di passaggi: ci vuole chi la pensa, chi l’autorizza e chi la giustifica. Dagli atti dell’inchiesta sappiamo che a concepire la demolizione furono i poliziotti pochi minuti dopo aver ricevuto l’ordine di pianificare lo sgombero. Il pomeriggio dell’undici marzo si costituisce lo Stato Maggiore della polizia cantonale per eseguire l’ordine di sgombero deciso dalla maggioranza dell’esecutivo luganese. Dopo una riunione iniziale, lo Stato Maggiore chiede ai vertici della polizia comunale luganese cosa si possa abbattere una volta sgomberato. Il mattino successivo da Lugano arriva l’informazione: è possibile abbattere il dormitorio. Due mesi e mezzo dopo, quello stabile sarà abbattuto.

 

Passaggio successivo: chi l’ha autorizzata? Ci rifiutiamo di credere che l’idea di demolire sia rimasta confinata nella mente dei vertici di polizia. Per passare all’atto, ci vuole almeno la condivisione con i superiori politici. Ci vuole il loro l’avvallo. In Ticino, la massima secondo cui «senza la copertura politica, non vai lontano» vale anche nelle carriere nel corpo di polizia. Purtroppo rimane solo un’ipotesi, poiché il Procuratore generale Andrea Pagani non l’ha mai voluta esplorare, nemmeno di striscio.

 

Non serve dilungarsi su quanto la Procura ticinese sia diventata dipendente dalla politica. Un tempo, personaggi più autorevoli ne garantivano una certa indipendenza. Oggi, vista la caratura degli attuali procuratori, non è più il caso. Pagani ha così preferito credere (o far credere) che la demolizione sia stata decisa improvvisamente quella notte per «necessità esimente» e frutto di una «claudicante comunicazione tra il comando delle operazioni di polizia a Bellinzona e l’ufficiale sul posto che ha frainteso ‘tetto’ con ‘tutto’». Nelle mille pagine d’inchiesta che abbiamo letto, sono molte le piste inesplorate, le mille contraddizioni tra i soggetti interrogati mai approfondite dal Procuratore. L’aver trascurato la premeditazione di un gesto pianificato con due mesi e mezzo d’anticipo è certamente la più eclatante.

Due politici luganesi, Borradori e Valenzano, sono stati smentiti a voce da due poliziotti e da un verbale scritto, su quanto sapessero della pianificata demolizione. La pista di un avvallo per una simile operazione politica del Capo dipartimento da cui dipende la polizia cantonale, Norman Gobbi, non è stata nemmeno presa in considerazione dal Procuratore. Anzi, l’ha rifiutata al legale della parte civile. Ecco dunque la risposta all’ultima domanda: chi giustifica la demolizione? A suggellarne la liceità del gesto, il decreto d’abbandono del Procuratore generale Pagani (liberale). Una sorta di approvazione giuridica alla demolizione.

 

Questo lo stato di salute delle nostre istituzioni «democratiche» svelate dalla questione Molino. Certo, un Molino pure lui cambiato nei tempi, non essendo un soggetto alieno alla società. Se avete la curiosità di conoscere il percorso storico di un quarto di secolo d’esistenza del Molino sul territorio luganese, consigliamo l’ascolto di Macerie, il podcast radiofonico corale coordinato da Olmo Cerri, le cui puntate sono reperibili sul sito del CSOA il Molino o su www.olmocerri.ch

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