L’America latina vira di nuovo a sinistra

di Roberto Livi, corrispondente dall’Avana

 

Nel tentativo di cambiare l’immagine (visto che non muta la sostanza) della politica degli Stati Uniti nel subcontinente latinoamericano, lo scorso 20 gennaio il presidente Joe Biden ha dichiarato che «l’America latina non deve più essere considerata il cortile dietro casa degli Usa (America’s back yard), ma quello di fronte (front yard)».

Naturalmente tale presa di posizione ha sollevato proteste, visto appunto che non indica alcun cambiamento sostanziale della politica neocoloniale della potenza nordamericana. «L’America latina e il Caribe ormai non sono più il patio (cortile) di nessuno» ha twittato il ministro degli Esteri cubano, Bruno Rodriguez.

 

Che cosa preoccupa il (deludente) leader degli Usa, tanto da voler «promuovere» il subcontinente latinoamericano al ruolo di cortile di fronte a casa?

 

La risposta la si ottiene guardando all’inversione di tendenza politica in America latina iniziata prima con la netta vittoria alla presidenza del Messico del tradizionale leader della sinistra Andrés Manuel López Obrador nel luglio 2018, seguita l’anno dopo dal ritorno dei peronisti in Argentina con la presidenza conquistata dal professore universitario Alberto Fernández e dall’elezione a Panama e in Guatemala di governi di (blando) centrosinistra. Più decisa è stata la svolta a sinistra nel 2020 con la netta vittoria in Bolivia del candidato del Movimento verso il socialismo (Mas), Luis Arce, che si è impegnato a continuare la politica progressista di Evo Morales, destituito l’anno precedente con un golpe della destra.

 

Altre tre nette sconfitte delle destre si sono verificate nell’anno appena passato. In aprile, il maestro-sindacalista Pedro Castillo ha vinto di misura in Perù un difficile scontro con la rappresentante del neoliberismo Kiki Fujimori, mentre in novembre Xiomara Castro, esponente della piattaforma socialista che propone un sistema di rendita di base universale per le famiglie, ha battuto il corrotto esponente della destra in Honduras. In Cile, paese vetrina del neoliberismo dei «Chicago boys», il giovane (35 anni) ex leader studentesco Gabriel Boric ha nettamente sconfitto il candidato pinochetista alla presidenza, con la promessa di aumentare le tasse ai ricchi per offrire pensioni accettabili e ampliare i servizi sociali.

 

È un segnale netto che il pendolo storico-politico dell’America latina torna a virare verso il campo progressista, più o meno radicale. Come avvenne all’inizio del secolo quando la cosiddetta «marea rosa», ovvero i governi progressisti in Venezuela, Ecuador, Brasile, Uruguay, Paraguay, Argentina e Cile, si univa a Cuba socialista e ai governi antimperialisti di Nicaragua e San Salvador.

 

Uno sguardo al calendario elettorale dell’anno che è appena iniziato mostra che questa tendenza può (notevolmente) rafforzarsi visto che le previsioni danno per probabile la vittoria di due candidati di sinistra, sia in Brasile (Lula da Silva, già presidente dal 2003 al 2010) sia in Colombia (Gustavo Pedro, ex sindaco di sinistra di Bogotà). Se queste previsioni si avvereranno, allora le sei maggiori economie dell’America latina – Colombia, Brasile, Perù, Argentina, Cile e Bolivia – potranno unirsi in un fronte progressista.

 

La grave crisi economica, l’aumento drastico delle diseguaglianze, il crescente scontento nei confronti dei governanti e la cattiva gestione della pandemia di Covid-19 hanno dato vita, appunto, a un movimento del pendolo che si distanzia ora dai leader di centro destra e della destra radicale che erano ritornati al potere dopo il 2015.

 

La povertà ha raggiunto il livello più alto degli ultimi 20 anni in un subcontinente nel quale, tra la fine del «Secolo breve» e l’inizio del XXI secolo, un deciso, ma effimero, aumento dei prezzi delle materie prime aveva permesso a milioni di persone di avanzare verso la classe media. La caduta sociale è stata altrettanto rapida. Oggi vari paesi latinoamericani patiscono di un’alta inflazione e più della metà dei lavoratori della regione sono impiegati nel settore informale. Il Covid-19 ha colpito più duramente che in altre regioni.

 

Questa situazione di crisi generalizzata ha certo influito sul ritorno al governo delle forze progressiste. Secondo l’analista Juan J. Paz, «in questi anni in molti lavoratori come pure cittadini appartenenti ai settori bassi della classe media impoverita hanno votato a sinistra semplicemente perché questa era all’opposizione». Ma i nuovi leader si troveranno ad affrontare un’economia in crisi strutturale e un’inflazione che cresce assieme a una pressante richiesta di miglioramento da parte di chi li ha votati. Dunque avranno difficoltà a garantire un cambiamento reale, anche perché questo è legato a un cambio di modello di sviluppo, da un capitalismo in gran parte estrattivista a un’economia sociale del Buen vivir, come primo passo verso un’economia postcapitalista.

 

Le esperienze dei governi della passata «marea rosa», come nel Brasile di Lula e Dilma Roussef, nell’Ecuador di Rafael Correa e, anche se in minor parte, della Bolivia di Evo Morales hanno dimostrato che una più equa redistribuzione del reddito capace – come in Brasile – di portare milioni di cittadini fuori dalla povertà estrema non è sufficiente a produrre un cambiamento politico stabile se si mantengono le strutture produttive del capitalismo neoliberista e estrattivista.

 

Tale situazione potrà spingere i nuovi (e vecchi) leader di sinistra a una maggiore apertura verso la Cina, non tanto per questioni ideologiche quanto per la strategia del gigante asiatico di offrire prestiti e investimenti in infrastrutture per, appunto, entrare nel mercato latinoamericano. È un processo già largamente in corso che riguarda, per esempio, l’Argentina peronista, come pure il Brasile del presidente Jair Bolsonaro, che hanno nella Cina il socio commerciale maggioritario. E nel Cile dell’ex presidente di destra Piñera, vetrina latinoamericana del neoliberismo.

 

Non vi è dubbio che, con la sua politica della «Nuova via della seta», la Cina si propone di scalzare la secolare presenza imperiale degli Usa in America latina. Ed è proprio questa realtà, fatta di investimenti e rapporti commerciali più che ideologici, basta sulla politica cinese del «beneficio mutuale», che spaventa l’amministrazione Biden. I risultati sono impressionanti. Negli ultimi 14 anni la Cina ha moltiplicato per 22 i suoi scambi commerciali con l’America latina, dove, secondo dati della Commissione economica per l’America latina (Cepal), operano già 2’500 imprese cinesi.

 

Il guanto di velluto – dare una nuova priorità alle relazioni con paesi latinoamericani non più intesi solo come vassalli obbedienti – iniziata nell’autunno dell’anno scorso con il programma lanciato da Biden «Ricostruire un mondo migliore» si accompagna anche al pugno di ferro. Rivolto soprattutto contro Cuba e Venezuela, come nel passato, paesi da isolare e destabilizzare.

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