DI GUERRA E D’ALTRO

PIAZZA APERTA - Giorgio Donati

 

La storia e i singoli 

 

La guerra tra Russia e Ucraina non è solo la guerra fra Putin e Zelensky, non è la guerra fra il primo che invade proditoriamente, l’altro che resiste eroicamente. 

 

Ridurre il tutto all’opera di singoli può essere fuorviante con il rischio di perdere di vista i veri motivi di queste tragedie. Personalizzare i conflitti rischia di camuffare e quindi nascondere le vere responsabilità, visto che tutto sembra partire dalle fisime di un singolo. È invece doveroso chiedersi: su quali basi, su quali appoggi vive e si alimenta il Putin di turno? Oppure: chi ha interesse a scatenare una simile guerra? Oppure ancora: chi paga il prezzo della guerra? La personalizzazione dei conflitti, fa dimenticare troppo in fretta il fatto che a pagare gravemente è sempre la gente comune, e a guadagnare, a rimanere al riparo e a non soffrire sono sempre i soliti, in qualsiasi conflitto, in qualsiasi parte del mondo, sia dalla parte dei vincitori che degli sconfitti. Finalmente nasconde il fatto che, quasi sempre, dietro le guerre, le invasioni, le occupazioni, ci sono i soliti centri di potere e d’interessi: è il grande capitale che tira i fili dietro le quinte, che pilota le scelte politiche che determinano il destino di tutti, è il grande capitale che succhia avido il sangue delle tragedie...

 

Guerra ed economia privata 

Le potenti famiglie russe, già parte importante  e numerosa della vecchia nomenclatura sovietica - insomma il potentissimo ed incancrenito apparato burocratico/militare - alla caduta dell’URSS si sono impadronite di tutto ciò che potevano arraffare del patrimonio dello Stato, dando il là ad un arricchimento personale veloce e vertiginoso fuori da qualsiasi controllo. Fu un autentico assalto alla diligenza nel mito delle privatizzazioni ad ogni costo, un po’ come in occidente a partire dagli anni 70. Così lo storico Tony Judt: “Il risultato fu una privatizzazione di tipo cleptocratico. Massimo dell’indecenza, in Russia [mentre in Ucraina successe una cosa simile…, nda], durante il governo di Eltsin e amici, l’economia passò nelle mani di un ristretto numero di uomini che divennero straordinariamente ricchi. […] La distinzione fra privatizzazione, concussione e furto sparì quasi completamente: c’era moltissimo da rubare – petrolio, gas, metalli preziosi, oleodotti – e niente e nessuno che lo impedisse. Beni e istituzioni pubbliche furono smembrati a proprio vantaggio da funzionari che si appropriarono praticamente di tutto quanto si poteva intascare direttamente o assegnare legalmente ai privati” (Judt, Postwar, Laterza 2017, pp 848-849). Senza dimenticare, negli anni seguenti, la penetrazione nei paesi vicini per impadronirsi di terre particolarmente ricche o importanti strategicamente. Adesso tocca all’Ucraina, già elemento portante dell’economia sovietica, siccome regione particolarmente ricca di minerali di ferro, gas, petrolio, prodotti agricoli, ecc., il tutto secondo un modello d’aggressione che si pensava ormai superato, condito da una sapiente propaganda d’altri tempi. Riassume bene il concetto il giornalista Eugenio Occorsio: “dal litio al cobalto alle terre rare, per arrivare al cuore della siderurgia europea: le regioni a est sono il ‘motore’ finanziario di Kiev fin dai tempi dell’Unione Sovietica. E ora Mosca vorrebbe riprendersele.

Altro che nostalgia di recuperare l’identità dell’antico popolo slavo dei Rus’, altro che mistici richiami al ‘sacro fiume’ Dnepr, altro che ‘l’Ucraina non esiste’ come ama ripetere Vladimir Putin: l’aggressione militare cela motivazioni pratiche e irresistibili per un Paese in difficoltà economiche come la Russia. È chiaro fin dal primo giorno del conflitto che Mosca punta alle ricchezze minerarie del Donbass, e possibilmente anche all’altrettanto prezioso tessuto industriale di tutta la fascia Mariupol-Odessa che cinge la Crimea”. (Ucraina: acciaio e miniere, ecco il tesoro del Donbass che fa gola a Putin, La Repubblica, 19 aprile 2022).

I centri di potere economico hanno quindi tutto l’interesse a mantenere lo statu quo – e dunque ad appoggiare e influenzare le scelte del governo - e, là dove è possibile, allargare ancora il loro raggio d’azione: all’estero, Svizzera compresa, con l’inarrestabile penetrazione economica sullo sfondo di una latente evasione fiscale d’alto bordo. Fin quando la politica putiniana – o di un suo eventuale sostituto - garantirà loro agevole pascolo per i loro affari, il governo con tutte le sue diramazioni sparse sul territorio russo non crollerà. Se le perdite finanziarie degli ingranaggi del potere cominceranno a pesare (per i più ricchi), Putin avrà i giorni contati. E qui entra in gioco il problema delle sanzioni internazionali. Se l’origine di questo disastro è il capitale, è il capitale che va colpito. Se le sanzioni con il freno a mano tirato fanno solo solletico all’economia russa (e quindi nello stesso tempo non ledono oltre quel tanto gli interessi del capitale occidentale), si calmerà la coscienza ma la tragedia continuerà, così come continueranno gli affari ad essa connessi. Il solito cane che si morde la coda, il solito “far finta di” per non trovare la soluzione e prolungare così la redditizia tragedia.

 

Zone di tensione e armamenti

Nel secolo scorso già le due guerre mondiali e in seguito la fondazione della NATO e del Patto di Varsavia avevano portato le spese militari al parossismo un po’ dappertutto. Durante la guerra fredda est e ovest, che gestivano le loro società in modo diverso, ma sostanzialmente con un capillare controllo sulle popolazioni, cavalcarono ambedue con indubbia maestria le reciproche pseudo paure. Da una parte e dall’altra occorreva creare e mantenere l’idea di un nemico per facilitare la gestione sociale, la stabilità politica, nonché per giustificare, legittimare, insomma sacralizzare i folli investimenti nel settore degli armamenti. Soldi finiti poi a persone e centri di interesse in prima fila ieri nella creazione di tensioni, in prima fila oggi a soffiare sul fuoco della guerra. La fine della guerra fredda è stata un brutto colpo per il capitale legato alla contrapposizione est-ovest e quindi occorreva trovare qualcosa d’altro per foraggiare la bestia: capitano a proposito decine di conflitti nel mondo, in ordine sparso Afghanistan, Yemen, ex-Jugoslavia, Libia, Siria, Sudan e tanti altri; poi la paura del terrorismo, poi l’invasione dell’Iraq, poi …: altri miliardi finiti nelle tasche dei soliti noti. Lo stesso mantenimento della NATO e il suo allargamento verso est di questi ultimi anni può essere visto ed interpretato in modi diversi. Ma non dimentichiamo una cosa: il potenziamento della presenza NATO è venduto, ancora!, come un tassello indispensabile per la difesa dell’Occidente, con la presunzione che in quelle aree ci sono le premesse per un conflitto, mentre in realtà è la volontà di creare e poi mantenere degli attriti che creino tensione latente: l’incertezza, l’insicurezza e la paura per giustificare l’ineluttabilità di una produzione di armamenti senza fine. Oggi l’obiettivo è sempre lo stesso: normalizzare un conflitto o la sua eventualità, la produzione e l’uso delle armi, le migliaia di morti. La gente, quella che taluno chiama il “popolo”, non deve sapere, né mettere in discussione “valori” resi intoccabili dalla propaganda: il grande inganno. 

In queste settimane, un po’ dappertutto, ritornano certi discorsi su esercito, armamenti e difesa del territorio anche in paesi, come la Svizzera, che non hanno nessuna preoccupazione ragionevole di essere invasi da un ipotetico vicino in scalmane da allargamento territoriale, senza poi dimenticare alcune danze grottesche attorno al concetto di neutralità. Insomma vi è, da parte di certe forze politiche e d’opinione - quelle che annusano prima di altri l’arrivo di probabili affari d’oro - la spinta verso un aumento delle spese militari e quindi della produzione di armamenti. Per esempio in Svizzera UDC e parte del PLR si sono gettati con avido tempismo sulla preda, chiedendo l’aumento di due miliardi delle spese militari, l’Italia pensa addirittura di portare le spese militari al 2% del PIL... Perché non si sa mai, perché dobbiamo essere pronti e così via. Si sta cercando nuovamente di rendere normale, giusto ed indispensabile il fatto di dedicare enormi risorse agli eserciti e a tutto ciò che vi ruota attorno: un eterno, tragico ritornello...  

 

Sinistra e futuro 

Siamo giustamente focalizzati sul dramma ucraino, ma vediamo di non dimenticare ciò che ci sta attorno: globalizzazione, scempio dell’ambiente, liberismo sfrenato, diritti sociali e individuali calpestati, un’economia sempre più senza regole con un mondo politico sempre più servo e figlio di quest’ultima, a rimorchio degli interessi economici dei poteri forti, ci stanno portando ad un punto di non ritorno. Vogliamo continuare così o vogliamo che ci siano dei cambiamenti radicali e duraturi? Vogliamo continuare a marciare sul bordo del burrone o creare una società diversa e soprattutto più vivibile per tutti? Forse è il momento di acquisire finalmente una nuova consapevolezza sociale, diffusa dappertutto, su quello che vogliamo fare delle nostre esistenze. È il grande capitale privato, con tutti i suoi agganci con le istituzioni, i partiti, i media, ecc., che, nel bene e nel male, conduce le danze. Lo sanno, o dovrebbero finalmente saperlo tutte le forze, a partire dalla sinistra, che nell’affrontare i grossi problemi sul futuro della nostra società devono, un momento o l’altro, accettare l’idea di un ineluttabile cambiamento radicale della stessa. E agire di conseguenza, altrimenti non se ne esce. Il compito di queste forze è rendersi conto che occorre un profondo salto di qualità per scoprire quali sono le strade da imboccare per evitare di essere fagocitate e assorbire dagli interessi di chi non vuole cambiare niente. E a maggior ragione proprio in questo momento di una guerra che rischia di procrastinare sine die gli enormi problemi che ci stanno soffocando. Vediamo di non dimenticare che, come dice bene Naomi Klein (Shock economy), il capitale approfitta sempre di guerre o disgrazie naturali o di altri eventi che creano smarrimento e paura per affermare il privato al posto dello Stato ed imporre le tre regole d’oro del liberismo: privatizzazione, deregulation e tagli alla spesa sociale. Il primo passo, già molto difficile e storicamente indigesto, è quello dell’unità: il capitale lo ha fatto e si è organizzato - sempre più intensamente dopo gli anni 70 del secolo scorso - , le forze alternative no, disperse come non mai in un universo di partiti e movimenti che spesso se le suonano di santa ragione tra di loro, non cavando così, tutto sommato, un ragno dal buco. Il neoliberismo vorrebbe ricacciare milioni, se non miliardi, di persone alla situazione dei servi della gleba, che nascono servi e muoiono servi. È la fine di molte delle conquiste sociali del XX secolo e anche del secolo precedente; è la fine delle speranze di poter vivere una vita dignitosa, equa, sicura. Sembra esagerato, nonché tragico, ma sotto sotto è ciò che guida l’azione del capitale di questi anni: creare e mantenere le disuguaglianze fra una massa di senza speranza e una minoranza di ricchi e di super ricchi: “Le disuguaglianze che ci spingono a una deriva oligarchica cercano di annullare questa emancipazione [tutto ciò che è stato raggiunto in campo sociale ed economico per tutti nel XIX e nel XX secolo, nda], e di bloccarci dove siamo nati” (Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza, LUP 2019, p 58). Tanto pessimismo dunque, a meno che da questa esperienza nasca una forza capace di invertire la direzione di marcia del nostro sistema. Così mi aggrappo speranzoso ad uno degli scritti giovanili di Karl Marx, ricordato e commentato dallo storico Tony Judt (cit., p 500) con grande attualità: “Il giovane Marx era preoccupato da problemi di carattere sorprendentemente moderno: come trasformare la coscienza ‘alienata’ e liberare gli esseri umani dall’ignoranza della propria autentica condizione e delle proprie capacità; come invertire l’ordine delle società capitalistiche e porre gli esseri umani al centro della loro esistenza. In breve, come cambiare il mondo”. Citazione da rileggere con calma e “masticare” piano piano…