Ucraina: invasori e invasati. Tra «analisi» e propaganda

di Paolo Favilli

 

«Il 12 giugno le forze dell’Europa occidentale varcarono le frontiere della Russia e cominciò la guerra, cioè si compì un fatto contrario alla ragione umana e a tutta la natura umana. 

Milioni di uomini commisero gli uni contro gli altri così innumerevoli malefici, inganni, tradimenti, rapine, falsificazioni ed emissioni di assegnati falsi, saccheggi, incendi ed assassini, quanti per secoli interi non ne raccoglierebbero gli annali di tutti i tribunali del mondo….»

 

Il secondo volume di Guerra e Pace comincia con questo periodo, cioè con l’icastica rappresentazione di un’invasione e dei suoi effetti. Oggi ci troviamo di fronte ad un’altra invasione con identici effetti potenziati al massimo da uno sviluppo senza precedenti della tecnologia bellica. Lev Tolstoj ha ben chiare le responsabilità contingenti dell’aggressore contro il quale condurre una guerra totale era cosa necessaria. Era necessario calarsi nell’orrore. Fa sue le parole di Andrej Bolkonski: «Non prendere prigionieri, ma uccidere e farsi uccidere. (…) Lo scopo della guerra è la strage; strumenti della guerra sono lo spionaggio, il tradimento e l’istigazione a tradire, la spogliazione degli abitanti, il saccheggio e il furto per approvvigionare l’esercito, l’inganno e la menzogna, detti astuzie di guerra». Usa un linguaggio demistificante nei confronti della «grandezza» di Napoleone «che più duramente di ogni altro che avesse partecipato a quell’azione portava il peso di quanto avveniva; ma mai, sino alla fine della sua vita, egli riuscì a intendere né il bene, né la bellezza, né la verità, né il significato dei suoi atti, troppo contrari al bene e al vero». Che, nelle sue riflessioni a Sant’Elena, considerava la campagna di Russia celle du bon sens et des vrais intéréts di un nuovo sistema di equilibrio europeo puremement pacifique. Che nascondeva l’atrocità del reale sotto il velo di proposizioni ideali.

 

Putin, l’aggressore, è il responsabile primo per aver trasformato i «piccoli» orrori della guerra a bassa intensità, nel grande orrore che sta sotto i nostri occhi. Ad aver trasformato la conflittualità latente dell’attuale sistema internazionale, in guerra aperta. Ma l’enormità dell’atto non si può comprendere concentrandosi nell’atto in sé.

 

Tolstoj, nonostante la sua esecrazione per Napoleone, aveva ben compreso che la contingenza non poteva spiegarsi se non all’interno di una struttura, come avrebbe detto, quasi un secolo e mezzo, dopo Ernest Labrousse. Il manifestarsi, lo «scoppiare» di una guerra di vasta portata, di eventi così capaci di dare un segno interpretativo forte ad una fase storica, non poteva essere compreso basandosi sul tempo breve in cui Napoleone ed Alessandro I avevano messo in moto il meccanismo: «Ogni volta che vedo mettersi in moto una locomotiva, odo un fischio, vedo che si apre una valvola e si muovono le ruote; ma da ciò non ho il diritto di concludere che il fischio e il movimento delle ruote sono la causa del movimento della locomotiva».

 

Tolstoj dedica brani di «spietata ironia» (Berlin) alle narrazioni superficiali e intellettualmente povere di quelli che oggi chiameremmo «storici politici». Naturalmente egli non poteva suggerire altre alternative se non ispirate ad alcune filosofie della storia del secondo Ottocento con forti caratteristiche deterministiche.

 

Quale «spietata ironia» dovremmo riservare, dopo decenni di elaborazioni teoriche e pratiche storiografiche tese a costruire categorie analitiche adatte alla comprensione del «presente come storia», al fatto che oggi venga continuamente riproposto, a proposito della guerra in Ucraina, lo stesso modello di rappresentazione oggetto dei feroci strali dell’autore di Guerra e Pace?

Per la verità attualmente non sono, in genere, gli studiosi professionali di storia ad utilizzare il modello della «contingenza» senza «struttura», ma gli «opinionisti» di una stampa che svolge le funzioni comunicative di un reparto componente un ampio ed articolato schieramento bellico.

 

Ecco il modello conoscitivo proposto da un giornalista presente costantemente su quella stampa e nella politica-spettacolo televisiva. Ad un lettore che esprimeva qualche dubbio sulle caratteristiche della guerra in corso così ne spiegava le motivazioni ed il senso: «Si chiama lotta tra il bene e il male. Se un uomo che si abbandona agli istinti malvagi prende il potere in uno Stato autoritario, sono guai. È, semplificato al massimo, quanto sta accadendo, no?» (Severgnini, «Corriere della Sera», 11 maggio). Dove la «semplificazione» serve solo a sottolineare il fondamento esplicativo della guerra in corso. E a chi, in uno spettacolo televisivo, gli chiedeva quali sarebbero stati gli esiti della lotta in corso tra il bene ed i male in Ucraina, rispondeva con altrettanta «semplificazione»: «Non c’è storia, è abbastanza evidente come va a finire. Vinciamo noi questa guerra», noi «40 democrazie ricche, avanzate, organizzate» («Otto e mezzo», 27 aprile). Del resto, come aveva affermato un altro giornalista, Francesco Merlo, l’inglese non è forse «la lingua della democrazia»? («Corriere della Sera», 13 marzo).

 

Non si potrebbe dire più chiaramente, e su ciò i Severgnini, i Merlo, i Gramellini, i Grasso ecc. sono candidamente scoperti, che non è l’analisi dell’evento lo scopo dei loro interventi, quanto la partecipazione attiva all’iniziativa militare dell’esercito del bene. Lo stesso fenomeno caratterizza anche gli organi principali della stampa ticinese.

 

Dal punto di vista del modo in cui gli studiosi intendono il processo conoscitivo solidamente fondato su «analisi» di sistema, le proposizioni dei suddetti, ed altre analoghe, sono soltanto stupidaggini pomposamente declamatorie. Dal punto di vista, però, di una guerra nel cui carattere locale si rispecchia una globale tensione conflittuale, tali proposizioni sono semplicemente armi di combattimento, parole come pallottole. E chi combatte convintamente una guerra non può concepire la pace se non come frutto della propria vittoria. Nel caso dei «nostri segretar[i] dell’opinione dominante» sarà la vittoria del «noi (…) 40 democrazie, ricche, avanzate, organizzate». In sostanza l’auspicio di una guerra, di una barbarie, continua.

 

A parte l’enfasi dannunziana niente di concretamente determinato, nemmeno sui parametri attraverso i quali riconoscere i caratteri costitutivi dei magnifici 40. Anche in questo caso l’analisi specifica dell’oggetto specifico non è considerata necessaria: la democrazia si autodefinisce tramite tautologia.

 

Il giudizio politico su quanto sta accadendo può dare indicazioni su come operare nella proposizione di iniziative per la pace solo se solidamente fondato sul giudizio storico. Il giudizio storico non è quello che assolve o condanna, ma che si pone il problema della comprensione dell’evento inserendolo nei tempi e negli spazi geografici che lo rendono intellegibile. In fondo lo ha riconosciuto anche il comandante in capo delle armate del bene il 24 maggio, parlando a Tokyo di fronte ai colleghi del Quad, quando ha affermato: «Questa è più di una questione europea. È un problema globale».

 

Ecco, soltanto provandosi a mettere in connessione tutti i fili che attraversano le logiche della conflittualità tra le grandi potenze per la ridefinizione degli equilibri mondiali dopo la dissoluzione dell’Urss, si può aspirare di avvicinarsi ad un panorama conoscitivo che permetta di operare razionalmente in un contesto di relazioni devastato.

 

Anche su questo non ci si devono fare soverchie illusioni. La ragione è debole di fronte ai meccanismi delle forze in atto scatenate dal sistema guerra, meccanismi incontrollabili dopo determinati livelli di sviluppo endogeno. Ma proprio perché la ragione è così fragile non possiamo permetterci di farne a meno.

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