di Alessia Manzi e Giacomo Sini
Reportage dal villaggio eco-femminista e autogestito di Jinwar (Rojava, Nord della Siria) sorto nel 2017
«Che età avrà la mia mamma? Visto com’è bella?» chiede Ciya, un vispo ragazzino mentre intreccia colorati braccialetti accovacciato su un letto, canticchiando una canzone. «Ho 28 anni e ho vissuto molte difficoltà» dice Zeynep da Gewer, nel nord del Kurdistan, che seduta a gambe incrociate versa del çay da una teiera argentata e fumante. «A quindici anni ho dovuto sposare un uomo vent’anni più grande di me che non mi lasciava uscire di casa», racconta la giovane poggiando su un tappeto rosso e blu una ciotola di caramelle. «Solo quando è nato Ciya ho scoperto come nascessero i bambini. Non avevo vestiti né per me, né per mio figlio, che picchiavo di continuo: lo avevo imparato dalle botte prese da mio marito. In fondo, anch’io ero una bambina». Sul volto di Zeynep scende per un attimo un velo di tristezza. «Fuggita a Maxumur, nel sud del Kurdistan, volevo uccidermi per il male ricevuto. Stavo lasciando Ciya in adozione, ma ho cambiato idea grazie al sostegno ricevuto da amici conosciuti lì – ricorda Zeynep guardando con amore il figlio –. Come lasciare una parte del mio cuore?». Poi Zeynep viene a sapere che nel Nord-Est della Siria è nato Jinwar, un eco-villaggio dove donne e bambini conducono liberi una vita comunitaria. «Arrivati a Jinwar, Ciya piangeva sempre ed io non stavo bene. Siamo andati via per tornare poco dopo. Abbiamo capito subito che il nostro posto fosse nel villaggio», dice Zeynep.
«Qua ho ritrovato me stessa, e non mi guardo più attraverso gli occhi di un uomo capace soltanto di denigrarmi. So che posso farcela da sola e ho molti interessi, come giardinaggio e cucito» spiega Zeynep. «Non lascerei mai Jinwar. Tutte le donne meritano una seconda opportunità per essere felici». Da una casa vicino all’abitazione di Zeynep, una donna parla ad alta voce. «Piano con quel pedale! Ecco, brava!» esclama una signora coi capelli avvolti in un foulard bordeaux rivolta a una ragazza attenta a fare l’orlo a una tenda, fra macchine da cucire e scampoli di stoffe variopinte lasciate ovunque, in questo stanzone adibito a sartoria. «L’8 marzo del 2017 su questa terra abbiamo poggiato la prima pietra del villaggio. Un anno dopo, il 25 novembre, nella giornata contro la violenza sulle donne, Jinwar spalanca le sue porte» spiega Amara, una giovane abitante del villaggio situato nel cantone di Al- Ha-sakah, nel nord-est della Siria. «Le case sono in terracotta secondo la tradizione, per essere fresche in estate e calde l’inverno. Queste trenta casette sono state realizzate anche con l’aiuto degli abitanti dei villaggi intorno, a cui da tempo spiegavamo quale fosse il nostro progetto». La parola “Jinwar”, in Kurmanji, significa “terra delle donne” e prende spunto dalla Jineolojî: la scienza delle donne teorizzata dal leader curdo Abdullah Öcalan, che aspira a una società libera dal patriarcato.
« Dieci anni fa le donne hanno giocato un ruolo fondamentale nella rivoluzione. Da quel momento in poi, in questa zona del Medio Oriente molte di loro non obbediscono agli ordini del padre o dello zio, chiedono il divorzio, studiano. Alle Mala Jinê – case delle donne, ndr – si tengono riunioni per risolvere problemi di genere» prosegue Amara. «A Jinwar siamo quasi autosufficienti. Coltiviamo ulivi, albicocchi e abbiamo creato una cooperativa agricola che offre lavoro anche alle persone esterne al villaggio. Domani faremo anche il pane», continua Amara passeggiando sul viale che dall’agglomerato di case si snoda tra la scuola, la fattoria e l’ambulatorio di medicina naturale. Su questa strada polverosa, tre ragazzini scorrazzano su una bicicletta dorata. «Da Afrin sono andata a Shahba per unirmi al movimento di liberazione» ricorda Jîyan, seduta al fresco nel suo giardino. «Poi ho raggiunto la Mala Jinê di Qamishlo, ho seguito qualche lezione dell’Accademia e ho deciso di andare a Jinwar. Attendevo da mio fratello i documenti per la Germania. Non ero abituata alla vita del villaggio». Alla fine, Jîyan decide di restare a Jinwar e in poco tempo cura profumati giardini e diventa responsabile del negozio del borgo, finché non viene arrestata al confine iracheno. «Stavo andando a un incontro di Jineologjî in Europa. Sono stata rilasciata da poco», commenta la donna. «Non andrei più in Germania. Non saprei lasciarmi alle spalle Jinwar». Una voce proviene da un edificio in cui il laboratorio teatrale porta in scena uno spettacolo contro la violenza sulle donne.
«La libertà appartiene alle donne, ma in alcune famiglie non esiste! Se unite, le donne sono più forti degli uomini» recita una ragazzina dai capelli raccolti in una treccia, che parla davanti a una parete coperta dai volti delle combattenti cadute negli scontri contro l’Isis e la Turchia. «Nella mia famiglia, ad Aleppo, non c’erano differenze tra me e i miei fratelli. Poi, tutto è cambiato dovendo sposare mio cugino a diciotto anni» ricorda Rojida*, 32 anni, poggiando il vassoio con la caffettiera turca tra i divani da pavimento di casa sua. «Qua sposarsi è obbligatorio, ma a casa della famiglia di mio marito ho perso la libertà. Svolgevo faccende domestiche e non potevo parlare» aggiunge Rojida bevendo una tazzina di caffè. «Sarei voluta scappare ma poi è nata Shler*, mia figlia. Sono rimasta ancora lì provando a divorziare. Lui non voleva, e così siamo fuggite e abbiamo trovato riparo in una casa protetta e poi siamo arrivate a Jinwar», commenta la giovane. «Con Shler prendiamo lezioni di inglese. Stiamo bene qui».
È ora di cena. Due ragazze stendono una tovaglia al centro di una piccola saletta e portano dei piatti colmi di dolma, tipici involtini di foglie di vite. «A Jinwar abitiamo con donne curde, arabe ed ezide. La lotta delle donne curde, che capiscono l’oppressione delle loro sorelle, riguarda la libertà di ogni donna in tutto il mondo. Per questo speriamo che l’esempio di Jinwar possa essere seguito ovunque, perché le donne siano supportate ad uscire dalla violenza» aggiunge Amara.
A Jinwar il cielo sembra una coperta di stelle e il frastuono dei tiri d’arma pesante e d’artiglieria rompe il silenzio della notte nelle vallate adiacenti al villaggio. A qualche chilometro di distanza, dai territori siriani occupati da Erdogan nel 2019, milizie legate ai turchi ed esercito di Ankara, quotidianamente colpiscono la città di Tel Tamr e i villaggi a ridosso del fiume Khabour, lungo l’autostrada internazionale M4. «Il contesto patriarcale della società ha reso inizialmente difficile la presenza delle donne accanto ai combattenti uomini» spiega Zilan Tal Tamr, comandante Ypj – Unità di Protezione Delle Donne – del Consiglio Militare di Tel Tamr, inquadrato nelle Sdf, Forze Democratiche Siriane. «Ad ogni modo la collettività ha ben presto accettato questo processo, e oggi siamo una delle componenti maggiormente presenti nella battaglia contro l’occupazione», continua la comandante. «Nel Nord-Est della Siria le donne sono attive in ogni ambito sociale, non solo militare, e si battono per un’uguaglianza di genere che favorisce l’intero processo rivoluzionario», evidenzia Zilan. L’area di Tel Tamr è abitata da cristiani siriaci e assiriani, curdi e arabi che nel 2015 sono stati massacrati dall’avanzata dell’Isis. La linea del fronte dista solo una manciata di chilometri dalla collina che sovrasta la città. «Un tempo c’erano oltre trenta chiese fra i centri abitati dell’area. Ora sono distrutte o inaccessibili a causa degli attacchi quotidiani. È rimasta solo quella, la più antica, in cui si riuniscono gli assiriani della zona per le celebrazioni», racconta Nabil Warda, portavoce delle Assyrians Khabour Guards, milizie assiriane.
«Abbiamo dato rifugio a cinquanta famiglie in fuga dai villaggi attaccati dai turchi. Vogliono spazzare via la presenza siriaco-assiriana dall’area, siamo pronti a proteggere tutta la comunità sino all’ultima goccia di sangue», conclude Warda. Il cielo si tinge di rosa su Jinwar e la brezza fresca del tramonto accarezza le spighe di grano finché si mescolano ai campi arati che si perdono verso il confine turco e le sagome di alte montagne. «Sono rivoluzionaria. Studiando sociologia ed essendo nata qui, conosco bene i problemi del Medio Oriente», dice Rojda accarezzando Lucy, un cucciolo di cane. «In questo luogo combattiamo quella stessa battaglia che il popolo curdo conduce da oltre cinquant’anni per la sua libertà. Se a Jinwar può nascere una “città delle donne”, vuol dire che questo modello si può diffondere altrove sconfiggendo il patriarcato e rendendo il mondo un luogo di pace e sorellanza».
* Nomi modificati su richiesta delle persone intervistate
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