USA: una recessione contro i lavoratori

di Fabrizio Tonello, Università di Padova

 

Non capita spesso, negli Stati Uniti, di sentire i guru della Borsa affermare tranquillamente in televisione che non solo la recessione è alle porte ma che si tratta di qualcosa di “inevitabile” e addirittura “positivo”. 

 Il presidente della Federal Reserve Jay Powell maschera dietro il pretesto dell’inflazione il suo annuncio di un aumento del tasso base dello 0,5% (con altri già decisi fin da giugno) ma il vero motivo è un altro: stroncare l’ondata di sindacalizzazione in atto da qualche mese e riportare il tasso di disoccupazione a livelli tali da intimidire i lavoratori.

 

Facciamo un passo indietro: la pandemia, oltre a provocare più di un milione di morti negli Stati Uniti, ha aperto la strada a una serie di misure di sostegno alle famiglie che hanno alleviato la condizione dei lavoratori più poveri e convinto molti che forse si poteva vivere facendo “solo” due lavori invece di tre. La prova sta nel fenomeno che si è avviato circa un anno fa, la Great Resignation, ovvero le dimissioni volontarie di circa 4 milioni di operai e impiegati ogni mese.

 

Negli Stati Uniti, come ben si sa, le tutele dei lavoratori sono minime, in particolare per quanto riguarda i licenziamenti, quindi la situazione normale è quella in cui le persone con un posto di lavoro a tempo pieno se lo tengono ben stretto. La combinazione pandemia-politiche di sostegno-ripresa economica ha però fatto il miracolo di portare il tasso di disoccupazione al 3,6%, praticamente ai minimi storici e un mercato del lavoro più “amichevole” ha fatto aumentare i salari del 5,5% nell’ultimo anno.

 

La stagnazione dei salari dei lavoratori manuali in America è durata mezzo secolo, cosa che non deve stupire alla luce delle feroci politiche antisindacali perseguite dagli anni Settanta in poi: gli iscritti al sindacato erano il 35% della forza lavoro nel 1954, il 20% nel 1982, il 10,5% nel 2019. Negli ultimi due anni c’è stato un modesto incremento, non ancora visibile nelle statistiche generali ma evidente nei successi dei referendum tenuti in giganti come Amazon e Starbucks, oltre che in settori come i trasporti, le cure ospedaliere e le università.

 

All’Università della California, per esempio, nel 2020 il sindacato UC-AFT, che rappresenta 6.500 professori a contratto e bibliotecari, aveva iniziato una campagna di sindacalizzazione per i docenti non di ruolo, che come spesso accade nelle università americane, insegnano un terzo dei corsi. Qualche mese fa è stato raggiunto un accordo storico, che ha migliorato drasticamente la retribuzione e la sicurezza del lavoro dei docenti non di ruolo, che sono poco pagati e spesso non vengono riassunti dopo un anno di contratto.

 

Negli Stati Uniti, il monitoraggio degli scioperi è molto limitato e la ricerca sulle minacce di sciopero è quasi inesistente. Sebbene il Bureau of Labour Statistics (BLS) degli Stati Uniti tenga traccia degli scioperi, lo fa segnalando solo gli scioperi che coinvolgono 1.000 o più lavoratori, anche se solo lo 0,3% delle aziende statunitensi ha 500 o più lavoratori. In questo modo sottovaluta in modo significativo il numero di scioperi che si verificano ogni anno.

 

Occorre ricordare che negli Stati Uniti, per dichiarare uno sciopero, non è sufficiente l’azione di un sindacato: prima di tutto occorre un referendum tra i lavoratori per decidere se creare una rappresentanza sindacale nell’azienda e, soltanto in caso positivo, il sindacato potrà poi contrattare con il padronato ed eventualmente proclamare un’astensione dal lavoro. Queste restrizioni sono state fondamentali per il declino dei sindacati dopo l’elezione di Ronald Reagan nel 1980 che, appena entrato in carica, licenziò di colpo tutti i controllori di volo, dipendenti civili del governo federale, che minacciavano un’agitazione, facendoli sostituire da personale militare. La brutale determinazione dei governi e delle grandi aziende ha garantito mano libera al padronato per i 40 anni successivi.

 

Recentemente, Apple e Amazon hanno speso milioni di dollari per impedire la sindacalizzazione dei loro dipendenti, licenziando attivisti e usando tutti i mezzi leciti e illeciti per continuare ad avere mano libera. Questo non è bastato per frenare un gran numero di successi locali, di cui sono protagonisti essenzialmente i lavoratori giovani e le donne, che hanno dimostrato la capacità dei lavoratori di organizzarsi spesso silenziosamente ma in modo efficace. La più grande catena di supermercati americani, Walmart, ha recentemente aumentato a 110.000 dollari l’anno (altrettanto in franchi svizzeri) lo stipendio lordo delle sue migliaia di camionisti. Ancora più importante, una larga maggioranza degli americani ora ha un’opinione positiva delle trade unions e si è convinta che il loro declino sia stato negativo per i lavoratori. Va sottolineato che il salario minimo federale, inchiodato da anni a 7,25 dollari l’ora ($ 2,13, sì, proprio due dollari e 13 centesimi per chi riceve delle mance, come i lavoratori nei bar e ristoranti) aveva raggiunto il suo massimo storico in moneta costante a $ 12,47 nell’ormai lontanissimo 1968, 54 anni fa.

 

Le modeste conquiste recenti rischiano però di venire arrestate o cancellate da una stagflazione simile a quella degli anni Settanta, che farebbe non solo aumentare la disoccupazione ma anche danneggerebbe direttamente i lavoratori colpendoli nei loro risparmi. I sistemi pensionistici più diffusi negli Stati Uniti si basano su risparmi condivisi tra lavoratore e azienda, che vengono investiti in borsa, i cosiddetti piani 401(K). Benché la loro gestione possa essere molto differenziata, ogni ribasso significativo di Wall Street si riflette negativamente sui risparmi dei lavoratori e sulle sue prospettive di ottenere una pensione decente a fine carriera.

 

Si tratta di una minaccia estremamente brutale, attuata con successo dal presidente della FED Paul Volcker, nominato dal presidente democratico Jimmy Carter nell’agosto 1979. I suoi ammirati collaboratori dissero che nessun altro banchiere avrebbe avuto il coraggio di alzare i tassi di interesse così velocemente, fino all’11% e oltre. Ma né il governo né la banca centrale avevano previsto quanto sarebbe stata costosa e dolorosa la disinflazione per le famiglie americane: sotto la regia di Volcker, il tasso di disoccupazione rimase al 7% o più per quasi sei anni, dal maggio 1980 al dicembre 1985, raggiungendo il massimo storico del dopoguerra al 10,8% nel novembre e dicembre 1982, sotto la presidenza Reagan.

 

Memore di questa lezione, Jay Powell probabilmente preferirebbe un “atterraggio soffice” ma all’inflazione si aggiungono in queste settimane altri fattori di rischio: la guerra in Ucraina significa non solo gigantesche spese militari (l’amministrazione Biden ha chiesto al Congresso altri 40 miliardi di dollari in aiuti all’Ucraina) ma anche aumenti dei prezzi delle materie prime, petrolio e gas naturale ma soprattutto materiali strategici per le industrie americane, in precedenza forniti da Russia e Ucraina. È palesemente in atto un processo di de-globalizzazione in cui tutti dovranno fare i conti con la scarsità fisica di certe cose, per esempio i microchip senza i quali non possono funzionare né i nostri telefonini, né le nostre auto, né le nostre lavatrici. La banca centrale americana sta giocando col fuoco.

Tratto da: