Quando le missioni svizzere aiutarono Hitler a invadere l’Unione Sovietica

di RedQ

 

Nella notte del 22 giugno 1941, una formidabile armata nazista scatenò “l’Operazione Barbarossa”, iniziando così l’aggressione dell’Unione Sovietica, invasione che secondo tutti gli storici militari, nei primi tre mesi, risultò essere la più sanguinosa campagna militare della storia con una media giornaliera di 15-20000 morti.

E ciò non solo per le perdite militari, ma forse soprattutto per gli indicibili massacri di civili commessi dalla Wehrmacht. Dopo gli sbalorditivi successi iniziali, Hitler si illuse di poter chiudere la partita molto rapidamente. Ma ben presto l’inverno russo e soprattutto l’eroica resistenza di Leningrado (1 milione di morti) e delle truppe schierate a difesa di Mosca rappresentarono le prime, anche se ancora parziali, sconfitte dell’esercito tedesco, che fin allora era considerato come invincibile.

 

Poco nota da noi è la compartecipazione di alcune missioni svizzere che, sotto la copertura di azioni d’aiuto umanitario, in realtà hanno rappresentato un sostegno diretto all’aggressione della Wehrmacht, negli anni che vanno dal 1941 al 1943. Ideatore e realizzatore di queste missioni sanitarie fu Eugen Bircher, personalità molto potente del nostro paese in quegli anni: chirurgo e direttore dell’ospedale di Aarau, comandante di divisione, consigliere nazionale per l’UDC dal 1942 al 1955.

 

Bircher era inoltre stato presidente della società svizzera degli ufficiali, docente di storia militare al politecnico di Zurigo nonché redattore capo della rivista militare svizzera. Da sempre fanaticamente antisocialista, aveva creato in varie città dei gruppi di “azione civica”, che avevano come scopo quello di combattere persone con opinioni politiche “non svizzere”. Da sempre sostenitore del nazismo, di cui ammirava soprattutto l’autoritarismo e il militarismo, divenne incontrollabile nella sua frenesia anticomunista quando la Germania decise di farla finita con l’Unione Sovietica lanciando l’Operazione Barbarossa. In combutta con Hans Frölicher, ambasciatore svizzero a Berlino e ardente filo-nazista, Bircher propose al Consiglio Nazionale Federale di organizzare delle missioni di medici e infermieri per sostenere lo sforzo bellico tedesco.

 

Il Consiglio Federale dapprima fu molto reticente a causa dei problemi che ciò avrebbe creato con lo statuto di neutralità della Svizzera. Poi però trova una scappatoia: ufficialmente, grazie alla cooperazione del presidente della Croce Rossa svizzera (J. von Muralt, altro anticomunista scatenato), le missioni vengono ufficialmente dichiarate come sottoposte alla Croce Rossa e inoltre finanziate da fondi privati, soprattutto da grandi industriali svizzeri, filo-nazisti. Bircher vuole guidare personalmente le missioni. Questo crea un nuovo problema al Consiglio Federale, che alla fine, d’accordo con il Generale Guisan, inventa una nuova scappatoia: durante queste missioni, Bircher verrà congedato dalla sua posizione di comandante di divisione, e questo mentre tutto l’esercito era in servizio attivo!

 

Il 15 ottobre 1941 finalmente si parte: 31 medici, 30 infermiere e altro personale, in totale un’ottantina di persone, che vengono ricevute con tutti gli onori all’accademia militare di Berlino dove Bircher dichiara apertamente le intenzioni d’appoggio all’aggressione nazista, ciò che convinse anche l’ultimo partecipante che avesse ancora potuto essere scettico. Più tardi si venne poi a sapere che ci furono una serie di documenti, probabilmente in parte sconosciuti addirittura al Consiglio Federale, nei quali le missioni militari svizzere s’impegnarono a occuparsi solo dei feriti tedeschi e a non prestare assistenza medica né alla popolazione russa, né tantomeno ai soldati sovietici.

 

Ancora più compromettente fu il fatto, scoperto solo un paio d’anni dopo la fine della guerra, che queste missioni erano sottoposte alla legge militare tedesca, per cui ogni infrazione grave avrebbe potuto essere punita con la fucilazione.

 

La prima missione fu impiegata a Smolensk, mentre in seguito ce ne saranno altre tre in diverse città tra cui Stalino (l’attuale Donetsk che tutti ormai conosciamo a seguito della guerra in Ucraina), Saporischschja (anche questa in territorio ucraino) e Roslawl. I partecipanti di queste missioni sanitarie furono testimoni di una serie di orribili massacri, sia di civili che di prigionieri russi. Soprattutto il chirurgo lucernese Rudolf Bucher, al rientro in Svizzera, cercò, ma senza successo, di pubblicare degli articoli con delle testimonianze critiche su quanto aveva visto, anche perché lui dichiarava di essere partito pensando che si volessero aiutare i combattenti di entrambe le parti. In vari modi gli si impedì di rendere pubbliche le sue critiche e ciò fu possibile solo molto più tardi. Sul tutto ci furono poi delle inchieste, anche a seguito di interventi parlamentari, ma al di là di qualche modesto rimbrotto, non ci fu nessuna sanzione. A quanto ci consta, ad almeno una di queste missioni partecipò anche un chirurgo ticinese, il dottor Molo, allora primario di chirurgia e direttore dell’ospedale San Giovanni di Bellinzona.

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