Mosca e Kiev alzano i toni, ma a dominare è la confusione

di Yurii Colombo, corrispondente da Mosca

 

La guerra in Ucraina ha vissuto nel mese di luglio una fase di stallo. L’esercito russo ha faticosamente completato la conquista della provincia di Lugansk alla fine di giugno ma...

...  non è stato in grado né di porre sotto controllo come richiesto a gran voce dal ministro della Difesa Sergej Shougu tutta la provincia di Donetsk e ancor meno di stringere d’assedio Charkov martellata dall’aviazione e dall’artiglieria russa sin dai primi giorni del conflitto.

 

Le ragioni sono molteplici. Seppur gli ucraini hanno evitate in molti casi la resistenza “fino all’ultimo uomo” come a Marjupol, i russi continuano a combattere svogliatamente (a parte gli ormai stanchissimi reparti del Donbass) e a dover sempre di più assumersi compiti di amministrazione e polizia nelle zone occupate (a Kherson, per esempio, da un paio di mesi opera una fastidiosissima guerriglia sullo stile nord-irlandese che rallenta il tentativo di riportare la vita alla normalità ed iniziare la ricostruzione).

 

Vladimir Putin continua a lasciare indefiniti gli scopi dell’ “operazione speciale militare”, o meglio, li modula a seconda delle settimane, segno dell’incertezza (e anche della confusione) che regna al Cremlino. Il ministro degli esteri Sergej Lavrov in visita in Africa nella seconda metà di luglio alla ricerca di nuovi partner economici e politici (la Russia è già presente nel continente militarmente in Libia e Repubblica Centro Africana con i mercenari del gruppo Wagner) ha affermato che “ora gli obiettivi dell’operazione vanno al di là della liberazione del Donbass” e che “la Russia aiuterà a liberare l’Ucraina dai neonazisti installati a Kiev”.

 

Al ministro si è aggiunto l’ex presidente Dmitrij Medveved, ormai da tempo attivissimo sui social network, che ha parlato di riportare sotto il controllo russo non solo l’Ucraina ma anche la Georgia e il Kazakistan. “Il Kazakistan è uno Stato artificiale – ha scritto Mevedev - si tratta di ex territori russi, come la città di Guryev, Semipalatinsk, persino Alma-Ata, che fino al 1924 si chiamava città di Verny. In questo secolo, le autorità kazake hanno avviato iniziative per il reinsediamento di vari gruppi etnici all’interno della repubblica, che possono essere qualificate come genocidio dei russi. E non intendiamo chiudere un occhio su questo. Finché non arriveranno i russi, non ci sarà alcun ordine”. Il post è stato poi dichiarato apocrifo ma l’imbarazzo al ministero degli esteri russo è apparso evidente e lo stile dell’autore inconfondibile, soprattutto da quando come il suo predecessore Boris Eltsin, Medvedev ha iniziato ad eccedere con le libagioni.

 

Tuttavia l’idea di poter “riunificare il mondo russo” dell’ex Unione Sovietica come sognano altri stretti collaboratori del presidente russo, appare più sogno che realtà. La mobilitazione di forze fresche da mandare nel tritacarne slavo va avanti a rilento, per usare un eufemismo, e le perdite sono state finora ingenti. Da mesi il ministero della difesa russo non fornisce dati sui caduti ma i dati che circolano da parte dei servizi britannici appaiono realistici: 15 mila caduti e 60 mila feriti in meno di 6 mesi. Un vero macello se si pensa che gli USA in 11 anni di conflitto in Vietnam persero 58 mila uomini. Si parla ora del tentativo di reclutare circa 200 mila uomini procedendo a una mobilitazione semi-forzata ancora una volta nelle regioni asiatiche e siberiane, ma il governo russo ha sotto mano un dato allarmante di cui deve tenere per forza conto: i milioni di cittadini russi che hanno preso la via dell’esilio in questi mesi. Capitali dell’ex Urss come Erevan, Tblisi, Astana sono ormai popolate da giovani russi che per timore di essere arruolati hanno lasciato le loro case in attesa che “le acque si calmino”. E si tratta spesso di personale e forza-lavoro qualificata nei settori dell’Intelligence Technology e del lavoro cognitivo al più alto livello (giornalisti, tecnici, ingegneri).

 

La situazione nel campo opposto, quello ucraino, non è più rosea. Volodomyr Zelensky ha annunciato da settimane una contro-offensiva per riprendere almeno Kherson, che però stenta ad arrivare. E’ vero che i missili americani HIRMAS, ora fattualmente in dotazione alle Forze armate ucraine, hanno inflitto pesanti colpi alla logistica e ai depositi di idrocarburi e di armi russi, ma allo stesso tempo il “fattore motivazionale” che aveva tenuto in piedi l’Ucraina ai tempi dell’offensiva a tenaglia in profondità russa di marzo-aprile, sembra affievolito e inizia a farsi sentire la stanchezza. A cui si aggiunge la piaga della corruzione che non meno che in Russia rallenta lo sforzo bellico e che si concretizza non solo in fenomeni di diserzione ma anche di contrabbando delle armi fornite dai Paesi Occidentali.

 

L’accordo sul transito del grano ucraino e la disponibilità almeno formale di Biden e Putin di tornare a parlare di controllo degli armamenti atomici potrebbe aprire lo spazio per un inizio di trattative nell’autunno-inverno.

 

L’ipotesi adombrata dal presidente turco Erdogan potrebbe essere realistica in qualche misura. Si tratterebbe di giungere a un cessate il fuoco che congelerebbe gli equilibri sul campo pur senza il riconoscimento da parte ucraina delle conquiste russe, con eventualmente la formazione di una forza di interposizione di pace nella regione, sullo stile cipriota o eventualmente per certi versi quello coreano.

 

Ciò darebbe la possibilità a Putin di agitare ad uso interno l’idea della “piccola vittoria”, una cortina fumogena propagandistica per nascondere la sconfitta strategica e l’indebolimento politico, militare e diplomatico, con la speranza di allentare nel tempo le sanzioni occidentali. Da parte ucraina ciò garantirebbe la tenuta dell’integrità statuale del paese e la possibilità di iniziare una dolorosa ricostruzione. Si calcola che il Prodotto Interno Lordo del Paese si ridurrà quest’anno del 30-35% e il prossimo anno ancora del 10%, mentre per rimettere in sesto le infrastrutture dilaniate dall’invasione ci vorranno molti anni. Senza contare il fattore “umano”: il calo demografico dovuto ai tanti decessi e la probabilità che parte degli 8 milioni di rifugiati non ritornino più in patria.

 

A Mosca intanto si continua a fare i conti con le sanzioni imposte dall’Occidente. In primavera la produzione industriale di acciaio si è ridotta del 10% e interi comparti dell’economia hanno subito un tracollo, a partire dall’industria automobilistica le cui vendite si sono ridotte nel secondo trimestre del 2022 del 86%. La perdita del potere d’acquisto dei salari reali (del 16% secondo Rosstat l’ufficio nazionale statale di statistica) sta facendo cambiare abitudini soprattutto a cittadini delle grandi città abituati da anni a uno “stile di vita europeo”: meno carne di manzo e più di pollo nelle diete casalinghe, acquisto di alcoolici solo nazionali a buon mercato, sostituzione dei “brand” d’abbigliamento occidentali con “sottomarche” turche e vietnamite. A soffrire di più è il ceto medio che si è sempre “percepito” europeo. Con la fine dell’arrivo nelle sale cinematografiche dei film hollywoodiani, delle mostre internazionali, delle manifestazioni sportive internazionali, questi russi faranno fatica a riposizionare i propri gusti verso il mondo asiatico. “Si tratta di un’operazione disperata – dice il sociologo Boris Kagarliskij – destinata a breve a non avere successo che però forse nei tempi lunghi, generazionali, potrebbe portare a una mutazione antropologica dei russi in “nuovi asiatici””.

 

L’aquila bicefala è sempre stato simbolo della Russia autocratica che guarda sia a oriente che a occidente ma oggi Bruxelles e Berlino appiano sempre più distanti e Bombay e Pechino sempre più vicine.

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