di Michele Giorgio, corrispondente da Gerusalemme
L’offensiva aerea israeliana di inizio agosto contro Gaza ha confermato quanto sia ancora un cantiere aperto la strategia israelo-statunitense per la riorganizzazione dell’ordine mediorientale sulla base degli Accordi di Abramo del 2020, per la normalizzazione dei rapporti tra Israele e un certo numero di paesi arabi.
La questione palestinese che il viaggio compiuto a luglio da Joe Biden in Israele e in Arabia saudita intendeva chiudere in soffitta era e resta un pilastro nella realtà della regione. E il disinteresse verso di essa che mostrano diversi regimi arabi, in particolare quelli che si sono alleati con Israele, è solo apparente e comunque non coincide con il coinvolgimento che le società arabe manifestano verso la lotta dei palestinesi per la libertà e la piena autodeterminazione dall’occupazione israeliana.
Mentre i media ufficiali di alcuni Stati arabi hanno riferito con toni distaccati degli attacchi aerei israeliani contro Gaza che in tre giorni hanno fatto quasi 50 morti (tra cui 15 bambini e quattro donne) e centinaia di feriti – Israele li ha descritti come “preventivi” e finalizzati a colpire il Jihad islami -, sulle reti sociali tanti cittadini di quei paesi hanno espresso solidarietà ai palestinesi sotto le bombe e hanno condannato lo Stato ebraico autore di un attacco a sorpresa.
Si sono perciò rivelati almeno in parte fallimentari gli sforzi degli Usa, paralleli a quelli di Israele, di ridimensionare le storiche rivendicazioni palestinesi o di presentarle come irrilevanti se non addirittura una questione di “ordine pubblico” non legata all’occupazione dei Territori che dura da 55 anni.
D’altronde lo stesso presidente americano - che a Gerusalemme era giunto solo per firmare un patto anti-Iran con il premier israeliano ad interim Yair Lapid e in Arabia saudita è andato per riabilitare il principe ereditario Mohammed bin Salman ritenuto il mandante dell’assassinio del giornalista Jamal Khashoggi - non ha potuto fare a meno di ribadire che la posizione statunitense sostiene ancora la soluzione a Due Stati (Israele e Palestina) durante il frettoloso incontro che ha avuto a Betlemme il 15 luglio con il presidente dell’Autorità nazionale palestinese Mahmud Abbas (Abu Mazen), precisando però che essa “al momento” è irrealizzabile. Dove irrealizzabile vuol dire che Israele resta contrario all’indipendenza palestinese, non rinuncia ai territori che ha occupato nel 1967 e, di conseguenza, non si può fare.
Qualunque siano stati i disegni del viaggio di Biden, i palestinesi non rinunciano ai loro diritti. E l’Arabia saudita che per settimane era stata indicata, da indiscrezioni, come pronta ad aderire agli Accordi di Abramo, ha poi chiarito in modo netto che avvierà pieni rapporti diplomatici con Israele solo quando saranno realizzati i diritti dei palestinesi sulla base dell’iniziativa araba del 2002 (pace con Israele in cambio del ritiro dai Territori occupati). Certo, l’ambiguità saudita è nota. Riyadh da anni mantiene con Israele rapporti stretti dietro le quinte. Ma il fatto che il presidente americano non abbia potuto sventolare il vessillo dell’adesione saudita agli Accordi di Abramo ha rappresentato un fallimento per la Casa Bianca e un duro colpo per Israele.
Allo stesso tempo il presidente Usa ha dovuto rendersi conto che la posizione americana nel mondo arabo, anche tra le petromonarchie, storiche alleate di Washington, si è ulteriormente indebolita. E a poco è servita la sua assicurazione che gli Stati uniti non si stanno disimpegnando dalla regione come si ritiene in diverse capitali arabe. Proprio il vertice di Jeddah del 16 luglio - con i paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo e la partecipazione di Egitto e Giordania - avrebbe dovuto consigliare a Biden che gli Stati Uniti devono abbandonare le consuete politiche non realistiche nei confronti della regione e rivederle profondamente. Emergono Cina e Russia che non cercano di dominare o imporre le loro politiche ma consentono agli alleati di diversificare le loro relazioni. Un aspetto, questo, che intriga parecchio le petromonarchie che non si accontentano più dell’ombrello protettivo statunitense che risarciscono con l’acquisto annuale di armi made in Usa per decine di miliardi di dollari.
Biden a Jeddah non è riuscito a garantirsi che gli alleati arabi resteranno schierati senza fiatare dietro gli Usa nello scontro globale con Mosca e Pechino. Certo, Washington resta la principale alleata dei monarchi del Medio Oriente ma il presidente americano sembra non aver compreso che i paesi arabi “moderati” sono perfettamente consapevoli che gli Stati Uniti non hanno più l’egemonia globale e non possono più dare ordini agli alleati, anche quelli più sottomessi. Questi alleati, che hanno i propri interessi da perseguire, sanno anche che Israele, nonostante le sue enormi capacità militari, non può prendere il posto degli Usa. Più di tutto gli Stati del Golfo, il mese scorso, sapevano che lo scopo più concreto della visita di Biden non era la sicurezza nella regione sotto la guida israeliana ma combattere la recessione globale che incombe sulle economie sviluppate e in via di sviluppo, aggravata dalla guerra tra Russia e Ucraina e dalle conseguenze della pandemia. Anche per questo hanno deciso di non schierarsi dalla parte degli Usa nello scontro con Russia e Cina.
Un recente articolo pubblicato da Politico, firmato dell’ambasciatrice saudita a Washington, la principessa Reema bint Bandar bin Sultan, fornisce uno spaccato utile per comprendere ciò che è accaduto a Jeddah. La principessa afferma che il paradigma del “petrolio per la sicurezza” è “obsoleto” e non più appropriato per definire le nuove dinamiche dei rapporti tra Washington e Riyadh. Questa valutazione è corretta e va applicata in varia misura al resto dei paesi ricchi del Golfo e a un certo numero di altri Stati arabi. Il noto analista Uraib al Rintawi aggiunge che gli Stati uniti non sono più “onnipotenti” né sono un destino inevitabile. “Lo dimostra” – spiega – “la riluttanza dei leader degli Stati arabi a schierarsi con Washington nella sua guerra indiscriminata contro la Russia. Le dichiarazioni bilaterali e di gruppo del vertice di Jeddah non si sono discostate dalle disposizioni della Carta delle Nazioni Unite per quanto riguarda la Russia e la sua invasione dell’Ucraina”. Rintawi prosegue ricordando che a Jeddah è stato ignorato il progetto della NATO israelo-araba in Medio Oriente, mai citata in alcuna dichiarazione a conferma che quanto proclamato da Washington e Tel Aviv prima del viaggio di Biden non è mai stato realmente nell’agenda degli incontri. “Sulla questione degli idrocarburi – prosegue l’analista - i leader dei paesi produttori ed esportatori di petrolio e gas hanno ricordato al loro ospite americano, venuto con il desiderio di far pompare più greggio nei mercati inariditi, che hanno degli obblighi nei confronti dell’OPEC + e dei limiti che non possono superare”. Infine, Rintawi afferma che un numero crescente di Stati arabi considera il potente Israele “troppo piccolo” per riempire il vuoto statunitense nella regione e che è giunto il momento di cercare soluzioni più razionali ed efficaci per la loro sicurezza.
Un altro esperto, Abdelbari Atwan, rileva che il viaggio del presidente Usa è stato bilanciato dal quasi contemporaneo vertice tra Russia, Turchia e Iran che ha messo a nudo come Mosca, malgrado l’embargo occidentale, conservi una buona capacità di manovra politica e diplomatica. Di particolare importanza, sottolinea Atwan, è stato l’incontro a porte chiuse di Vladimir Putin con il leader supremo iraniano Ali Khamenei che ha sancito un’alleanza militare, politica ed economica tra i due paesi che può apportare cambiamenti negli equilibri di potere e influenza in Medio Oriente e Asia Centrale. Non è un caso che il presidente russo abbia scelto Teheran per la sua prima visita in una capitale straniera da quando le sue forze sono entrate in Ucraina. E il suo viaggio, spiega Atwan, è probabilmente il preludio dell’ingresso aiutato da Mosca dell’Iran nel gruppo BRICS di cui Russia e Cina sono membri insieme a India, Sud Africa e Stati dell’America Latina. E non va dimenticato il pieno coordinamento iraniano/russo nella guerra energetica in corso e la possibilità che l’Iran partecipi attivamente al nuovo sistema finanziario che Cina e Russia stanno cercando di istituire in alternativa allo SWIFT adottato dagli Stati Uniti.
La potenza e l’influenza di Washington in Medio Oriente e nel mondo restano rilevanti (e ingombranti) ma il declino statunitense è sempre più evidente.
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