Frenata dell’economia cinese tutta colpa del Covid?

di Gabriele Battaglia, da Pechino

 

La World Bank ha previsto che a fine anno la crescita cinese sarà inferiore a quella degli altri paesi asiatici presi complessivamente (Cina esclusa): 2,8 per cento contro 5,3. 

L’Asian Development Bank è solo di poco più ottimista, ipotizzando per Pechino una crescita sul 3,3 per cento nel 2022, contro il 5,3 del resto dell’Asia.

 

Se circostanze simili si verificassero, si tratterebbe della prima volta negli ultimi trent’anni: la fine di un’epoca, un cambio di paradigma e anche un bel grattacapo per il governo cinese, che a marzo stabilì per fine anno l’obiettivo del 5,5 per cento. Sfortuna volle che lo fece pochi giorni prima del devastante blocco di Shanghai della scorsa primavera, quando 26 milioni di persone furono chiuse in casa per circa due mesi.

 

Gli analisti delle due banche sovranazionali sono concordi nel dire che la strategia anti Covid di “azzeramento dinamico” – così come è definita ufficialmente – è la maggiore responsabile di questa contrazione della crescita cinese. Test di massa e restrizioni ai movimenti, hanno “interrotto [ndr] catene di approvvigionamento, produzione industriale e di servizi, vendite all’interno ed esportazioni”, recita il rapporto della Banca Mondiale.

 

Ma ci sono anche fattori strutturali. Un anonimo funzionario, ha detto alla rivista economica Caixin che, Covid a parte, “diversi fattori che hanno guidato la crescita della Cina in passato, come la globalizzazione, le importazioni di tecnologia, la rendita demografica, nonché le infrastrutture su larga scala e gli investimenti immobiliari, hanno subito cambiamenti fondamentali. Questi erano venti favorevoli alla crescita che ora sembrano trasformarsi in venti contrari”.

 

Così, in un andamento a spirale, sono cambiate anche le aspettative. “Nessuno osa prevedere che il proprio reddito continuerà a crescere – dice il funzionario - quindi non si arrischia a prendere in prestito denaro, consumare e investire”.

 

 

La frenata si vede

Un rapido sguardo a Pechino, dopo l’ennesima quarantena vissuta di ritorno in Cina (la terza in due anni, per la precisione), consente di stabilire che qualcosa è davvero cambiato: il supermercato dove si trovano parecchi articoli stranieri sembra avere a scaffale metà delle merci rispetto a qualche mese fa. Curioso, metà come una crescita del 2,8 è circa la metà di una del 5,3, fatto sta che questo luogo è esemplare perché gli stranieri sono i primi che se la filano da una Cina che fino a qualche anno fa era a detta di molti “the place to be” e oggi è “the place to escape”; e poi chissà, ci sono poche merci perché la filiera si è interrotta. Fangcaodi, il mall che un tempo era un panopticon felice – boutique, ristoranti, ma anche una galleria d’arte e sculture sparse tra gli spazi commerciali – è una desolazione, anche gli eventi culturali sono rimandati a data da destinarsi. Non gira più moneta, manca energia, voglia, cioè le ricette del boom cinese. E come fai a programmare un investimento, se l’emergenza continua può far saltare tutto all’ultimo momento per uno, due casi di Covid?

 

Il fatto è che la priorità è cambiata. Il responsabile del comitato di quartiere, il poliziotto di zona, ti bombardano di messaggi su WeChat – la app con cui in Cina fai tutto – per chiederti dove hai fatto la quarantena, per quanti giorni, da dove arrivavi prima del periodo di isolamento. Anquan di yi, ripetono, “la sicurezza prima di tutto”, mentre al primo posto c’era un tempo l’economia. La società cinese, oggi, è mobilitata per la lotta al Covid, non per arricchirsi.

 

Il problema di tutto questo non è tanto la costrizione, la Cina è sempre stata una società del controllo che ha alternato periodi di apertura e di chiusura, ha lasciato galoppare le forze animali del mercato per poi chiudere il recinto quando galoppavano troppo, in un primato della politica sull’economia che tra le altre cose ci impedisce di ridurre l’esperienza cinese a una qualche forma esotica di neoliberismo (come tendono invece a fare alcuni neo-marxisti).

 

Il problema – se mai – è che non si scorge una strategia razionale nella leadership cinese. Cioè, detta altrimenti, se esistevano già problemi strutturali che erano in procinto di frenare l’economia, perché a Pechino hanno adottato politiche anti-Covid che li amplificano?

 

Nei mesi scorsi, abbiamo creduto che la mobilitazione anti-Covid e la parziale chiusura della Cina alle influenze del mondo esterno, servisse a regolare alcuni conti interni.

 

 

Giganti tecnologici sotto tiro

Prendiamo per esempio il giro di vita che è cominciato a fine 2020 sulle imprese tecnologiche. Nell’ultimo decennio, i giganti dell’IT come Alibaba, Tencent, Baidu, si erano espansi a ritmi vertiginosi e fuori controllo, facendo anche irruzione nel sistema finanziario. Oggi è possibile utilizzare WeChat (Tencent) per gestire denaro senza passare dalla banca, per acquistare qualsiasi cosa o per scambiarsi semplicemente soldi tra amici e conoscenti; oppure si può accedere a forme di credito su Alipay (Alibaba) che risolvono alcuni problemi delle piccole imprese a corto di liquidità e impossibilitate a ottenere prestiti dalle banche. I giganti tecnologici sono stati facilitatori dei flussi economici, hanno svolto anche una funzione egualitaria per moltitudini fin lì escluse dai benefici delle transazioni finanziarie. Poi, quando a fine ottobre 2020 il tycoon di Alibaba, Jack Ma, ha rilasciato alcune dichiarazioni incaute sull’inefficienza del sistema finanziario cinese incentrato sulle banche di Stato (“banco dei pegni”, le aveva definite), la ruota ha cominciato a girare in senso contrario. Sono aumentati i controlli, sono stati posti dei limiti a un andazzo che rischiava di destabilizzare il sistema finanziario. Da anni molti sostenevano che questo doveva succedere, l’uscita infelice di Jack Ma è stato il segnale di via.

 

Prendiamo un altro esempio, quello dell’insegnamento privato. Con l’obiettivo di far passare ai figli nel miglior modo possibile il gaokao – il terribile esame di accesso alle università – le famiglie del ceto medio cinese avevano alimentato un mercato dei doposcuola a pagamento che valeva circa 120 miliardi di dollari, con un proliferare di operatori del settore. Questo non faceva che alimentare la diseguaglianza sociale – i figli dei ricchi avevano un surplus di insegnamenti, quelli dei poveri restavano indietro – e il disagio psicologico dei giovani sottoposti a interminabili giornate di studio, durante l’orario scolastico e pure dopo. Nell’estate del 2021, le autorità hanno deciso di vietare i doposcuola privati, punto.

 

 

Una larvata depressione

Sono solo due esempi.

Che abbiano avuto successo o meno (più meno che più), queste e altre misure hanno però depresso l’economia – e ancor più le aspettative – proprio mentre le politiche anti-Covid cominciavano a mordere.

 

Il segnale che passa oggi è depressivo: meglio stare fermi. Del resto, anche la fatica estrema – se non l’impossibilità – che si vive al semplice atto del muoversi, i controlli ovunque, la dipendenza da una app dello smartphone che deve essere sempre verde – se no guai – la vergogna e quasi la condanna o l’emarginazione sociale per chi risulta positivo, inducono all’autoconservazione, all’immobilità, alla zona di comfort domestica.

 

In questo contesto involutivo, come si prepara il Partito comunista, al suo ventesimo congresso? Con la celebrazione enfatica dell’uomo Xi Jinping, colui che dovrà reggere le sorti del paese per i prossimi cinque o forse dieci, se non quindici anni.

 

Proprio mentre la Banca Mondiale diffondeva previsioni fosche sul futuro della crescita cinese e dopo giorni di fake news su un fantomatico golpe (ritornano puntuali a ogni congresso), Xi è quindi ricomparso per guidare tutti gli altri membri della leadership a una mostra pechinese che celebrava i successi di se stesso medesimo. Era la notizia principale sui media cinesi. Dietro la formula astratta di “ringiovanimento nazionale”, una formula-ombrello lanciata fin dal 2012, si vuole così trasmettere il senso di quanto la Cina, sotto la guida del leader attuale, abbia risolto problemi atavici e stia muovendo verso un futuro sempre più radioso. Valore aggiunto è che – recita la narrazione ufficiale – la Cina viaggia verso il ringiovanimento facendo affidamento soprattutto sulle proprie forze interne: non c’è più bisogno del mondo là fuori. Dall’altra parte, però, il premier Li Keqiang, quello che negli ultimi dieci anni si è occupato soprattutto di economia e che ha già premesso la sua imminente uscita di scena, avverte che i consumi domestici non decollano.

 

Insomma, i numeri non sostengono la propaganda, la psicologia collettiva anche meno. Sicuramente sbagliano loro.

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