di Fabrizio Tonello, politologo, Università di Padova
Negli ultimi 60 anni i democratici americani hanno avuto parecchi meriti nella difesa delle donne e delle minoranze etniche; il problema è che nell’ultimo secolo hanno iniziato le quattro grandi guerre in cui gli Stati Uniti sono stati coinvolti.
Fu Woodrow Wilson a far entrare un paese reticente nella Prima guerra mondiale nel 1917, fu Franklin Roosevelt a far entrare gli Stati Uniti nella Seconda guerra mondiale, fu Harry Truman a trascinare gli americani nella guerra di Corea e, infine, Lyndon Johnson fu l’artefice della guerra nel Vietnam.
Ovviamente Roosevelt fu costretto dall’attacco giapponese a Pearl Harbour nel 1941 ma negli altri casi i motivi erano assai meno limpidi e, sostanzialmente, legati a una ragione che non coincideva affatto con la propaganda in cui i governi di Washington sono maestri: mantenere e rafforzare quello che Giovanni Arrighi ha definito il “ciclo egemonico” degli Stati Uniti.
Queste riflessioni sono necessarie nel momento in cui Joe Biden sembra voler riportare la politica americana ai tempi di Lyndon Johnson e del Vietnam, se non addirittura al tempo della crisi del mar della Cina, nel 1958, quando il mondo rischiò un conflitto nucleare attorno alla sorte di due insignificanti isolette contese fra Pechino e Taiwan: Quemoy e Matsu. Vedremo tra un attimo le somiglianze tra lo stile di Biden e quello di Johnson ma prima riassumiamo in breve le origini della crisi di allora.
Poiché le isole erano rimaste sotto il controllo dei nazionalisti di Taiwan ma si trovano a pochi chilometri dalla terraferma cinese, Mao decise di recuperarle, bombardando le truppe mandate da Ciang Kai-shek. A Washington i militari proposero (come avevano fatto otto anni prima durante la guerra di Corea) di lanciare testate nucleari contro la Cina. Il presidente repubblicano Dwight Eisenhower fortunatamente rifiutò ma la situazione di Taiwan rimase irrisolta anche dopo il riconoscimento della Cina popolare come “unica Cina” da parte del repubblicano Richard Nixon, nel 1972, e la sua ammissione al Consiglio di sicurezza dell’Onu.
Quest’estate, invece, non solo la speaker della Camera Nancy Pelosi è andata in viaggio ufficiale a Taiwan, e Biden, alla domanda di un giornalista, ha risposto senza esitazioni che, in caso di necessità, gli Stati Uniti difenderebbero militarmente Taiwan. Dichiarazione che ha ripetuto varie volte, vendendo inoltre armamenti per miliardi di dollari all’isola. Mezzo secolo di collaborazione con la Cina evaporato in un mese.
A questo si è aggiunto la brutale gestione delle sanzioni antirusse dopo l’invasione dell’Ucraina, il cui bilancio dopo otto mesi potrebbe essere riassunto così: Uno: qualunque sia la situazione militare, la Russia non ha mai guadagnato tanto da gas e petrolio. Due: i governi europei si sono prontamente allineati ma cominciano a incontrare un serio malcontento nelle popolazioni, che quest’inverno potrebbero restare al freddo. Tre: di fatto si è ricostituito il “blocco sovietico” che si era fratturato nel 1964 quando Mao Zedong aveva rotto con Mosca. Al contrario di allora, oggi Putin sembra disposto a giocare il ruolo di fratello minore nella nuova alleanza cino-russa.
Biden ha quindi aperto ben due fronti di scontro diplomatico con Russia e Cina, due situazioni così rischiose che, nel momento in cui questo Quaderno arriverà nelle mani dei lettori il conflitto potrebbe essere diventato militare. Uscire da una guerra è più difficile che entrarci, si sa. Lo scoprì a proprie spese il presidente Lyndon Johnson quando l’offensiva vietnamita del gennaio 1968 mostrò a tutti gli americani che il loro governo aveva mentito per anni e che la guerra non si poteva vincere. Nel marzo successivo Johnson rinunciò a presentarsi per un secondo mandato. L’eredità del disastro toccò a Richard Nixon, eletto nel novembre successivo. Biden potrebbe subire un destino simile, riconsegnando la Casa Bianca a Donald Trump, o a un suo clone, nel novembre del 2024.
La storia non si ripete ma può insegnare qualcosa: questa situazione in parte riflette la camicia di forza culturale a cui nessun presidente americano può sottrarsi perché le classi dirigenti degli Stati Uniti sono ossessionate dal mantenere il ruolo egemone del loro paese sul pianeta. Per un’altra parte, tuttavia, le somiglianze di formazione politica e di esperienze tra Johnson e Biden sono facilmente visibili, oltre che rilevanti per ciò che accade oggi.
Entrambi i presidenti americani vengono da una lunga esperienza in Congresso, in cui entrarono molto giovani: a 29 anni Johnson (alla Camera nel 1937), a 30 Biden (al Senato nel 1972). Johnson fu deputato, e poi senatore, per complessivi 24 anni, fino al 1961, quando divenne il vicepresidente di Kennedy. Biden è stato senatore per un periodo ancora più lungo: 36 anni prima di diventare vicepresidente con Obama. Lunghissime esperienze che ne hanno modellato lo stile politico e la visione del mondo, in particolare una fiducia illimitata nelle possibilità degli Stati Uniti.
Johnson era un uomo della Guerra fredda e della Great Society, un democratico che combatteva la segregazione razziale e la povertà. Biden è il presidente che ha dovuto affrontare il disastro sanitario e sociale lasciato in eredità da Donald Trump, ha fatto passare leggi in difesa dell’ambiente limitate ma non irrilevanti. Entrambi hanno dovuto fronteggiare fiammate inflazionistiche che non si aspettavano e che non sapevano bene come combattere (la Federal Reserve è sempre stata indipendente dal governo, fin dal 1913).
Lyndon Johnson distrusse la sua presidenza mandando mezzo milione di soldati in Vietnam: per ora Joe Biden si è limitato a svuotare le casse dello stato per mandare armi in Ucraina. Il punto di crisi più pericoloso non è però lì bensì a Taiwan, perché la Cina di oggi non è quella del 1958, non è un paese povero dotato soltanto di milioni di soldati bensì una potenza nucleare.
Come Johnson, Biden sembra non capire la forza del nazionalismo altrui, centuplicata quando si tratta di difendere la Patria dall’occupazione straniera o dalla minaccia di perdita di territori. Johnson non capiva Ho Chi Minh, Biden pensa che Putin sia un tirannello di seconda categoria invece che l’espressione di una visione del mondo che risale a Pietro il Grande e che certo non può accettare la perdita della Crimea, oggetto di un’invasione occidentale già nel 1854. Ancor peggio: l’attuale amministrazione di Washington non ha una strategia verso la Cina, dove Xi Jinping palesemente vuole lasciare come sua eredità politica la riunificazione del paese, reincorporando Taiwan.
Né Putin né Xi sono bravi ragazzi e sicuramente i loro popoli starebbero meglio senza di loro. Né l’uno né l’altro però, vogliono invadere il Kansas (e neanche la Polonia, o l’India): quello che vogliono è riconoscimento, non umiliazione. Confini sicuri, preferibilmente senza basi americane giusto al di là dei loro fili spinati. Né l’uno né l’altro sono più paranoici di quanto lo siano Biden e i suoi mediocrissimi consiglieri.
Il problema, per chi abbia letto un paio di libri di storia in vita sua, è che le potenze egemoniche in declino, dall’Atene di Pericle agli Stati Uniti di Biden passando per la Spagna di Filippo II, hanno sempre la tentazione di risolvere i loro problemi con la guerra. Così come le potenze in ascesa, dalla Gran Bretagna di Elisabetta I alla Cina di Xi, attizzano il nazionalismo dei loro popoli. E mentre un tempo il pianeta poteva assorbire senza troppa difficoltà i relitti delle navi ateniesi affondate dagli spartani a Egospotami, o quelle dell’Invincibile Armata disperse sulle coste inglesi, oggi la Terra, con i suoi otto miliardi di abitanti faticherebbe a riprendersi da un conflitto nucleare.
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