In America latina la rivoluzione non è per oggi, forse per domani

di Roberto Livi, corrispondente dall’Avana

 

La tesi che la crisi imperiale degli Usa comportasse la possibilità di una rapida decadenza dell’egemonia neoliberista è franata in America latina – come pure in Europa, come ha dimostrato l’esito delle elezioni politiche in Italia.

 

Luiz Inácio “Lula” da Silva – da vero “animale politico” che da anni sa fiutare la situazione, e non solo in Brasile – non ha atteso la secca sconfitta in Cile dei movimenti di sinistra nel referendum di settembre sulla nuova Costituzione per rendersene conto. Lo scorso maggio, presentando ufficialmente la sua candidatura per le presidenziali (per il Partito dei lavoratori, PT), Lula aveva destato una forte sorpresa annunciando l’alleanza con Geraldo Alckmin, esponente del partito conservatore PDSB e proveniente dal potente e reazionario Opus Dei. Con Alckmin come vice, l’ex presidente lanciava un ponte con una parte dello schieramento di centro destra del paese, sia a livello politico che di settori produttivi.

 

Anche sul piano internazionale, Lula aveva sorpreso lanciando l’idea di una moneta unica per l’America latina e dunque allineandosi con la tesi pragmatica del presidente messicano Andrés Manuel Lopez Obrador (Amlo) – sostenuto anche dal presidente dell’Argentina, Alberto Fernández – di costruire un’unità del subcontinente su modello dell’Unione europea.

 

Si tratta di fatto di una politica di integrazione dell’America latina che costituisce un’alternativa moderata – di “color rosa” – al bolivarismo radicale lanciato all’inizio del secolo da Hugo Chavez, un antimperialismo con forti componenti ideologiche e anti neoliberiste (il socialismo del XXI secolo) appoggiate anche da Fidel Castro e dal presidente boliviano Morales.

 

Nel corso di una campagna elettorale (in ballo vi erano anche le elezioni di parlamentari e dei governatori), che ha visto un Brasile polarizzato, con le progressive minacce di Bolsonaro di un vero e proprio golpe postelettorale con l’appoggio dei militari, Lula, nelle ultime settimane di settembre, aveva deciso di ampliare ancora l’arco delle sue alleanze. Aveva incluso dunque le sette formazioni politiche di centro e sinistra (non il rancoroso Pdt di Ciro Gomes) che partecipano alle elezioni, oltre all’economista Henrique Meirelles, ex presidente del Banco Central nelle prime presidenze di Lula (2003-2011) e poi passato a sostenere Bolsonaro, e l’ecologista Marina Silva, avversaria radicale di Lula. Lo scopo di questa alleanza extralarge, il cosiddetto campo largo, che va dalla destra conservatrice di Meirelles, al partito comunista e ultimamente alla formazione ecologista di Silva, ha comportato un programma liquido che va da tesi moderate di centro fino a elementi di indigenismo-ecologismo. Il collante era rappresentato dalla difesa della democrazia, in Brasile conquistata a fatica da circa tre decenni con la fine della dittatura militare (1964-1985) e seriamente minacciata da Bolsonaro.

 

L’esito delle urne di domenica 2 ottobre ha dato ragione a Lula, che ha battuto di circa cinque punti Jair Bolsonaro (48,4% contro 43,2%). Però non è stata l’attesa stoccata e dunque il candidato del Partito dei lavoratori va al ballottaggio del 30 ottobre. Con il favore delle previsioni, ma con una battaglia che si annuncia ben difficile e con un Brasile estremamente polarizzato. L’attuale presidente, infatti, ha raccolto circa 51 milioni di voti, più di quanto gli assegnavano le previsioni.

 

Dunque sul prossimo futuro del Brasile aleggiano profonde incertezze.

 

Queste elezioni hanno dimostrato che la trasformazione più drammatica della società brasiliana attuale è che il bolsonarismo – nonostante l’aumento drastico della povertà nel paese, quasi 700.000 morti a causa delle idee negazioniste del presidente riguardo alla Covid e l’aumento della violenza nelle maggiori città – si è costituito come una forza politica di estrema destra che conta con un gran appoggio popolare – circa un terzo della popolazione – e una energica e minacciosa presenza pubblica.

 

Rimane anche la pericolosa presenza del “partito militare”, dal quale proviene Bolsonaro e che questi, una volta presidente, ha chiamato a sostegno. La partecipazione dei militari è stata massiccia, più di 400 alti ufficiali fanno parte del governo di Bolsonaro e dell’alta burocrazia di Stato. Insomma dopo trent’anni di relativa marginalità, i militari sono tornati e non danno segnali di voler abbandonare la presa sul potere. Essi hanno messo in chiaro che, se è vero che Bolsonaro è membro del partito militare, loro non sono membri del “partito di Bolsonaro”. Insomma che le Forze armate hanno la capacità e l’intenzione di giocare un ruolo autonomo con un possibile appoggio degli Usa.

 

Un altro fronte decisivo è rappresentato dalle Chiese evangeliche, schierate in gran parte con Bolsonaro. Nelle sue manifestazioni più sociali – i neopentacostali con la loro Teologia della prosperità che è un’esaltazione dell’individualismo – l’evangelismo è attivo soprattutto nelle zone del paese con minor reddito e istruzione. Ma nel suo complesso agisce ormai nell’intera società brasiliana. I dati dell’Istituto brasileiro de geografia e estatistica (IBGE) affermano che nel gigante latinoamericano dalla metà del Novecento gli evangelici sono cresciuti dal 2,7% della popolazione al 39,6% , a scapito della Chiesa cattolica.

 

Si tratta di una transizione religiosa e dunque socio-culturale di portata storica che potrebbe nel giro di un decennio trasformare l’America latina dal serbatoio del cattolicesimo a “un continente riformato”.

 

In America latina, sulle elezioni in Brasile hanno puntato gli occhi soprattutto i presidenti del Messico e dell’Argentina. Il gigante sudamericano è essenziale per il progetto di un asse politico Messico-Brasile-Argentina per contrastare il tallone degli Stati Uniti sul patio latinoamericano. Tale alleanza dovrebbe funzionare, come ha fatto – ma oggi è in evidente crisi – l’“asse carolingio” tra Francia e Germania per la costruzione dell’Ue.

 

L’idea di fondo del presidente messicano Amlo è che non vi siano le condizioni per un superamento dell’egemonia neoliberista e dunque per una lotta condotta “dal basso” dai movimenti sociali. Ma che l’America latina può conquistare una reale sovranità e autonomia dagli Usa mediante l’alleanza dei più importanti paesi del subcontinente, una volta che siano guidati da governi progressisti, con una politica neodesallorista (priorità alla crescita, bassi tassi, intervento moderato nel mercato, miglior redistribuzione del reddito, coalizione di classe a favore della crescita). I paesi minori seguiranno e la leadership continuerà a essere degli attuali partiti progressisti.

 

Si tratta di un progetto che ha l’appoggio del presidente cileno Gabriel Boric, impegnato a costruire un fronte democratico e moderato per aggirare la sconfitta subita nel referendum costituzionale. E anche del presidente colombiano Gustavo Petro, il quale deve tener conto della presenza nel suo paese di sette basi degli Stati uniti che ritengono la Colombia un perno fondamentale della loro politica di controllo del subcontinente (dottrina Monroe) e che sembrano però disposti a non osteggiare la nuova presidenza progressista alla quale, all’inizio di ottobre, hanno offerto una “piena collaborazione nel campo della lotta al narcotraffico”.

 

Le priorità evidenti dell’Amministrazione Biden sono di ordine interno, con nuovi rapporti di forza che verranno stabiliti dalle elezioni di medio termine di novembre, e il contenimento con la guerra in Ucraina della Russia e soprattutto, specie in America latina, della Cina. In questo quadro gli Stati Uniti hanno iniziato un processo di “apertura” nei confronti del governo del presidente Maduro dato che il Venezuela ha le maggiori riserve di greggio a un tiro di schioppo dal sud degli Usa.

 

Per questo, il presidente venezuelano è ben disposto a cogliere l’opportunità dell’appoggio di un nuovo fronte progressista latinoamericano – come ha dimostrato la riapertura del confine tra Colombia e Venezuela il 26 settembre avvenuta alla presenza di Petro – per tenere aperta una porta con gli Usa.

 

In una profonda e drammatica crisi, principalmente economica ma con crescenti risvolti sociali, anche Cuba necessita più che mai di un appoggio latinoamericano. Il ciclone Ian alla fine di settembre ha avuto effetti devastanti nell’Occidente dell’isola e ha provocato un black out generale in tutta Cuba che nelle regioni più colpite si è protratto per quasi cinque giorni. Esasperando una popolazione già provata che, soprattutto all’Avana è scesa nelle strade manifestando il proprio malcontento in modo pacifico ma anche con blocchi stradali. La situazione è tanto critica che, secondo rivelazioni del Wall Street Journal, l’Avana avrebbe chiesto l’aiuto degli Stati Uniti. Decisione che non ha precedenti.

 

Chi l’aiuto l’ha inviato immediatamente è stato il presidente del Messico. Già nel catastrofico incendio dei grandi serbatoi di greggio di Matanzas all’inizio di agosto, Amlo era stato il primo a mobilitarsi inviando tecnici e materiali per contrastare l’incendio. Lopez Obrador, nel corso della sua visita all’Avana, lo scorso 8 maggio, aveva messo in chiaro che il Messico era decisamente schierato in appoggio alla rivoluzione cubana. Ma si era anche augurato che questa fosse “capace di rinnovarsi”. Un aperto riferimento alla necessità di riforme, anche strutturali, da attuarsi in tempi rapidi. Riforme alle quali pensa una parte della leadership dell’isola, ma, almeno sull’ampiezza e i tempi, non sembra esservi un accordo al vertice. Con la vittoria di Lula e un possibile potente asse progressista latinoamericano pronto ad appogiarla, economicamente e politicamente, l’ala riformatrice potrebbe imporsi.

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