di Franco Cavalli
Dopo quasi tre anni di pandemia, marcati da infinite restrizioni e soprattutto costellati di lunghi periodi di severissimi lockdown, in Cina recentemente gli operai di alcune grosse fabbriche e la gioventù di parecchie metropoli hanno inscenato grosse manifestazioni di protesta contro la cosiddetta politica dello “zero-Covid”.
Nei media occidentali, compresi quelli locali, ha subito trionfato la solita propaganda anticinese, spesso abbastanza becera: c’è chi addirittura ha scritto che era cominciata “la fine del governo comunista in Cina”. A Pechino non è invece mancato chi ha insinuato che alcune proteste fossero state istigate da sobillatori stranieri. A questa accusa, molti dei giovani che protestavano hanno subito risposto “è vero, sono Marx ed Engels”. Quest’ironica risposta sottolinea un fatto che i nostri media sempre tacciono: in Cina, anche prima della pandemia, ci sono sempre state manifestazioni di protesta, per non parlare degli innumerevoli scioperi.
Quasi sempre si tratta di movimenti di ribellione, nei quali prevale un atteggiamento critico “di sinistra”, contro funzionari o burocrati locali: tant’è vero che spesso la direzione nazionale del Partito Comunista, fedele all’atteggiamento pragmatico che da anni la contraddistingue, si è affrettata a dar ragione a chi protestava. Anche stavolta Pechino è corsa subito ai ripari, accusando i funzionari locali d’aver applicato troppo rigidamente le direttive nazionali, le quali sono state poi subito di molto ammorbidite.
A questo punto mi pare utile fare chiarezza sulla politica “zero-Covid” cinese, molto spesso travisata dalla propaganda occidentale, quasi si trattasse soltanto di una delle misure coercitive usate da Xi Jinping per imporre il suo dominio autocratico. Ufficialmente la Cina dichiara d’aver sinora avuto, grazie a questa severa politica di protezione della salute, soltanto un po’ meno di 6.000 morti da Covid.
Questa cifra strabiliante viene messa in dubbio da alcune pubblicazioni mediche occidentali, mentre tante altre la ritengono abbastanza veritiera. Ma anche se moltiplichiamo questa cifra per un fattore 10 o 20 (impensabile che si possano occultare ancora più cadaveri), la Cina sarebbe riuscita, se paragoniamo le sue cifre a quelle statunitensi o di diversi stati europei, a evitare perlomeno 2 milioni di morti. Basandosi sull’eccesso di mortalità nel 2020-2021, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) stima che a livello mondiale ci siano stati almeno 18 milioni di decessi da Covid, invece degli ufficiali poco più che 6 milioni. C’è quindi evidentemente una sottostima globale, che però secondo i dati dell’Oms non è maggiore in Cina rispetto a quella di altri paesi. Non c’è quindi dubbio alcuno che sinora la politica dello “zero-Covid” in Cina sia stata un successo che potrebbe passare agli annali della medicina.
È però da mesi che i migliori virologi occidentali, pur sottolineando l’indiscusso successo sin qui conseguito, temono che il disastro nell’Impero Celeste possa capitare proprio adesso. Difatti, non essendo la vaccinazione in Cina obbligatoria, solo poco più del 40% degli ultraottantenni è vaccinato e anche nella fascia d’età 70-80 anni il tasso di vaccinazione è troppo basso. E mentre i vaccini a mRNA di produzione cinese e quello basato su uno spray nasale non sono ancora pronti, l’efficacia dei precedenti vaccini prodotti secondo tecnologie tradizionali sembra essere ridotta soprattutto contro le ultime varianti del virus. I virologi statunitensi di origine cinese, che ben conoscono la situazione in quel paese, hanno calcolato che un’improvvisa abolizione di tutte le misure protettive previste nella politica “zero-Covid” potrebbe in questa situazione portare al decesso di 1 o addirittura di un milione e mezzo di cinesi. È quindi più che comprensibile che il governo di Pechino si muova con la massima prudenza.
Siamo quindi ben lontani dalle interpretazioni, spesso anche un po’ razziste, dei pennivendoli occidentali, ai quali tra l’altro non interessa per niente quella che per noi è la domanda principale a proposito della Cina. E cioè: è vero come dicono i marxisti cinesi, che Pechino sta tuttora applicando una forma estrema della Nep (nuova politica economica), inventata a suo tempo da Lenin, per permettere un’accumulazione di sufficiente ricchezza per poter poi iniziare a costruire il vero socialismo? O si tratta invece piuttosto di una forma particolare di sfruttamento capitalista? A questo quesito centrale dedicherò una delle mie prossime colonne. Nel frattempo auguro a tutte e a tutti Buone Feste!
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