«Temo quest’era storica turbolenta»

di Federico Franchini

 

Dopo un 2020 e un 2021 segnati dalla pandemia anche il 2022 è stato molto difficile. Un anno segnato dalla guerra in Ucraina e dalle sue conseguenze, umane e geopolitiche. 

 

Per parlarne ci siamo rivolti a l'ex senatore Dick Marty, voce libera e spirito critico, autore di rapporti internazionali che hanno messo in luce violazioni dei diritti umani in varie parti del pianeta. Ecco la nostra intervista di fine anno.

 

 

Dick Marty, in che mondo viviamo?

Siamo entrati in una nuova era storica caratterizzata da grosse turbolenze, dal ritorno dello spettro atomico e dalla crisi delle democrazie. Il tutto aggravato in modo stratosferico dall’emergenza climatica. Questo aspetto, ancora sottovalutato, è oggettivamente gravissimo. Lo confermano tutti gli studi più seri. Se fino a poco tempo fa nutrivo ancora la speranza che la tecnologia potesse risolvere la situazione, oggi sono molto più pessimista. Temo che abbiamo tirato troppo la corda. Quindi, viviamo certamente in un mondo difficile, ma quello che lasciamo alle nuove generazioni lo sarà ancor di più.

 

Dopo la caduta del Muro di Berlino, il politologo americano Francis Fukuyama teorizzò la “fine della storia”, riferendosi al fatto che dopo il crollo del comunismo sovietico la democrazia si sarebbe diffusa in tutto il pianeta. Non è andata esattamente così…

Paradossalmente, il mondo quasi perfetto era quello della Guerra Fredda: c’erano due blocchi e in fin dei conti sembrava tutto più tranquillo. Oggi la situazione globale è molto più complessa e anche le democrazie più solide sono in grande difficoltà. Lo si è visto negli Usa di Trump e lo si vede anche in Svizzera e in Europa, persino nelle democrazie più avanzate come quelle scandinave dove l’estrema destra sta crescendo in modo preoccupante. Camus diceva: “state attenti, quando le democrazie si ammalano il fascismo accorre al capezzale, ma non è per chiedere come sta”.

 

Come se lo spiega?

Siamo in un periodo storico incerto. E quando la gente ha paura la storia ci insegna che cerca rifugio nei cosiddetti personaggi provvidenziali. Uomini o donne forti che incutono sicurezza e senso dell’ordine. In questo senso va letta anche un’altra tendenza.

 

Quale?

Lo sbilanciamento dei poteri. Nell’ordinamento anglosassone si parla di check and balances, nel senso di un sistema istituzionale fondato sul bilanciamento incrociato e reciproco tra potere esecutivo, legislativo e giudiziario. Ciò significa che la separazione dei poteri non basta, occorre che tra di essi ci sia equilibrio. Oggi, anche nelle principali democrazie, Svizzera compresa, questo equilibrio è sempre più sbilanciato. Osservo un trasferimento continuo di poteri dal legislativo all’esecutivo e una diminuzione dei poteri della giustizia. Una tendenza che si è accentuata col pretesto della lotta al terrorismo prima e con la pandemia più di recente.

 

A proposito di uomini forti, cosa ne pensa di Putin?

Alla base siamo di fronte ad un personaggio grigio, mediocre. È stato un uomo di secondo piano dei servizi segreti che si è trovato al posto giusto al momento giusto, sfruttando una costellazione particolare. Ci sono vari indizi che gli attentati fatti in Russia nella seconda metà del 1999 siano stati organizzati dall’allora sconosciuto Putin, in quel momento da poco nominato Primo ministro. Quegli attentati furono il pretesto alla seconda guerra in Cecenia, un conflitto particolarmente brutale che ha permesso a Putin di profilarsi come uomo forte. Pochi mesi dopo, Putin fu scelto dall’ormai decadente Eltsin come suo successore. Da lì in poi cominciò a crearsi una sua statura, interna e internazionale, controllando il potere anche grazie allo sfruttamento delle materie prime.

 

Non ci è voluta la guerra in Ucraina per dimostrare che Putin fosse un pericoloso autocrate, responsabile di crimini di guerra e assassino di oppositori e giornalisti. Eppure, fino a poco fa ciò sembrava non dare molto fastidio...

L’occidente, Svizzera compresa, ha sempre avuto un ruolo ambiguo con la Russia di Putin. I diritti umani passavano in secondo piano, dietro ai grandi affari e ai bisogni di materie prime. Nel febbraio 2014, Putin fu accolto con tutti gli onori nella casa Svizzera durante le olimpiadi di Sochi. Poco dopo cominciò l’intervento militare in Crimea. Chi fosse Putin, lo si sapeva già. Nel 2010, scrissi un rapporto molto duro sulle violazioni dei diritti umani in Cecenia. Allora tirai in causa direttamente il Cremlino, responsabile di vari crimini oltre che della nomina del presidente ceceno Kadyrov, un criminale ritornato alla ribalta proprio con la guerra in Ucraina. Per i ceceni, così come oggi per gli yemeniti o i curdi, nessuno si è però mai indignato più di tanto.

 

Secondo lei, la Russia è l’unica responsabile di quanto sta avvenendo in Ucraina?

Questa guerra è un’aggressione assurda, inaccettabile e non può essere giustificata in nessun modo. Però mi sento di aggiungere una cosa.

 

Cosa?

Una guerra succede perché vi è una costellazione particolare che occorre analizzare. Non significa assolutamente giustificarla, ma cercare di capire quale processo abbia portato al suo scoppio. È interessante studiare come è salito al potere Hitler in un paese, la Repubblica di Weimar, che era una democrazia estremamente all’avanguardia. Gli accordi di Versailles che hanno umiliato la Germania sono solo una delle componenti. Un’altra fu senz’altro il ruolo della borghesia, delle chiese e degli industriali tedeschi che si vollero opporre alla grande libertà culturale e intellettuale di quel periodo.

 

Da dove partire per il caso russo?

Dal crollo dell’Urss. In quel momento è stata persa un’importante occasione storica. La logica di Guerra Fredda avrebbe dovuto cessare. Se ragioniamo in termini culturali, la Russia fa parte dell’Europa essendo la sua cultura a noi molto più vicina che la cultura americana. Lo stesso Gorbaciov parlò di “casa comune europea”. Ecco che in quel momento storico, l’Europa non ha saputo fare i gesti necessari per avvicinarsi in maniera inclusiva alla Russia.

 

Perché non l’ha fatto?

C’erano in campo, in entrambi i campi, forze divergenti. Quando è crollata l’Unione sovietica, la Russia era allo sbando e i più scaltri si sono serviti (la stessa cosa è capitata in Ucraina). La nascente oligarchia russa si è impadronita delle risorse e dei commerci, e i grandi criminali, spesso protetti da oligarchi e politici, si sono messi a trafficare armi. Costoro non avevano interesse ad avvicinarsi all’Europa. D’altra parte, la conservatrice amministrazione americana, alcuni esponenti chiave degli ambienti militari e la Nato stessa non avevano interesse ad un avvicinamento: se la Russia si fosse avvicinata all’Europa come lo avevano fatto altri paesi, l’Alleanza atlantica – costruita in funzione antisovietica − avrebbe dovuto scomparire.

 

Così non è stato. Quale è stato il ruolo della Nato?

In quel momento, scomparso il Patto di Varsavia, la Nato si è interrogata sulla sua stessa esistenza. E qui viene il sospetto che si siano inventati il lavoro. La Nato ha smesso di essere un’alleanza difensiva come dimostrano i bombardamenti in Serbia e in Kosovo – dove ha insediato una grande base militare – in violazione flagrante del diritto internazionale. Poi c’è stata la grande menzogna che ha portato alla guerra in Iraq, poi la Libia...

 

Ma questo, c’entra con la guerra in Ucraina?

C’entra per far capire chi si ha di fronte. Gli Usa hanno una mentalità militaresca. Credo che ci siano solo due presidenti americani su 46 che non siano stati in guerra contro qualcuno. Questo è abbastanza significativo, considerato anche il fatto che uno dei settori determinanti per le elezioni dei presidenti americani è quello delle armi. Con la fine della Guerra Fredda, invece di includere Mosca si è agito espandendo la Nato verso Est. Nel 2008, Bush invitò anche l’Ucraina e la Georgia ad aderire alla Nato, ma Germania e Francia si opposero consapevoli delle nuove tensioni che ciò avrebbe potuto creare. La Russia non era allora una minaccia, ma Mosca non poteva che vedere con ostilità questa rapida espansione verso i suoi confini di un’alleanza militare concepita in funzione antirussa.

 

In questo caso è però la Russia ad avere attaccato l’Ucraina...

Ripeto, non giustifico in alcun modo questa guerra assurda. Ma cerco di capire il processo che ha portato a questa situazione. Penso che ci siano state tutta una serie di decisioni sbagliate che han fatto sì che i russi si sono sentiti umiliati. E quando ci si sente umiliati, la Storia ci insegna che può succedere di tutto. L’ascesa di Putin va letta in questo senso.

 

Lei è favorevole all’invio di armi all’Ucraina?

Dal momento che questa aggressione è così ingiusta si può anche difendere l’opzione che gli ucraini possano difendersi. Però attenzione: bisogna avere l’onestà di dire che chi rifornisce le armi partecipa al conflitto e assume responsabilità precise, compresa quella della pace. Altrimenti è un’ipocrisia.

 

Di recente il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg ha detto che la Svizzera potrebbe salvare molte vite fornendo munizioni alla Germania che, a sua volta, le verserebbe all’Ucraina. Cosa ne pensa?

Mi sembra un discorso assurdo. Mi fa sorridere pensare che l’Ucraina dipenda dalle munizioni svizzere. Ci sono abbastanza industrie d’armamento altrove senza che la Svizzera debba assumersi questo ruolo. La Svizzera, al contrario, dovrebbe profilarsi maggiormente sul fronte umanitario e diplomatico, ma mi sembra che negli ultimi anni in questo ambito la Confederazione abbia perso non poca credibilità. Eppure, l’impegno umanitario è uno dei conclamati pilastri della nostra politica estera.

 

Come se ne esce, signor Marty?

Quel personaggio odioso che risponde al nome di Recep Erdogan con l’accordo sul grano ha dimostrato che ci sono dei canali con cui si possono avere delle discussioni. E ricordiamo che la Turchia è membro della Nato. Gli Usa e l’Europa dovrebbero fare pressione perché ci siano delle trattative di pace. È chiaro poi che quando c’è una trattativa di pace ognuno deve fare una concessione. Russi e Ucraini sono disposti a farlo? Non lo so, non so se se ne esce...

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