Servizio pubblico - Intervista a Federica De Rossa

di RedQ

 

Con la professoressa Federica De Rossa, autrice de Il servizio pubblico, strumento di effettività dei diritti fondamentali del cittadino, che dal primo gennaio assumerà la carica di giudice del Tribunale federale, facciamo il punto sul contesto giuridico del servizio pubblico.

 

 

Lei propone di ancorare nella Costituzione il principio del servizio pubblico. Con che obiettivo?

Quello che propongo è un vero e proprio diritto individuale giustiziabile (e non solo un principio) all’accesso a beni e servizi di base, ovvero non solo a prestazioni strettamente vitali come acqua, elettricità, cure ed educazione di base, ecc., ma anche a ciò che, pur non avendo carattere primario, fa parte dei bisogni usuali della popolazione, è accessibile praticamente a tutti ed utilizzato quotidianamente in una società moderna. Si tratta di una nozione evolutiva, che oggi deve comprendere, ad esempio, l’accesso ad una connessione rapida ad internet, strumenti di pagamento online, ma anche le strutture parascolastiche che sono oggi diventate una premessa indispensabile per assicurare la parità nel mondo professionale. Questo diritto va letto come una sorta di limite invalicabile per il mercato.

 

In che senso?

Oggi, a seguito delle trasformazioni del ruolo dello Stato avviate nel secolo scorso, la fornitura di prestazioni di servizio pubblico costituisce di regola un semplice compito che le varie leggi settoriali affidano agli attori, pubblici o privati, incaricati della sua esecuzione in un contesto di concorrenza, ma il cittadino non dispone di una pretesa giuridica da far valere quando si vede rifiutare una prestazione di base. Da un lato, quindi, la mia proposta richiama il legislatore al suo dovere costante di concretizzare la costituzione sociale assicurando anche ai componenti più deboli della società le premesse necessarie per esercitare le loro libertà fondamentali. D’altro lato, si attiva soltanto, ma comunque, ogni qualvolta ciò non sia avvenuto e quindi una persona si sia vista rifiutare una prestazione che, nella nostra società moderna, fa invece parte dell’uso quotidiano.

 

In Svizzera si parla di servizio universale, che però non è sinonimo di servizio pubblico. Si tratta di un indebolimento dal profilo giuridico oltre che politico?

Il legislatore svizzero ha mutuato questo concetto dal diritto dell’UE, che l’ha creato per affrancarsi dalle diverse tradizioni e terminologie dei singoli Stati membri. La nozione di servizio universale identifica un nocciolo duro di servizi considerati essenziali che devono essere forniti in base ai principi di accessibilità (anche dal profilo dei prezzi), universalità, continuità e adattamento costante ed è stata sviluppata nell’ottica di garantire l’effettiva accessibilità dei servizi essenziali nel contesto delle liberalizzazioni. Il suo scopo è quindi a mio avviso positivo, nella misura in cui esso intende assicurare coesione sociale e territoriale in un’economia di mercato. È la sua concretizzazione che si è rivelata insoddisfacente sia in Svizzera che nell’UE, poiché non ha contemplato meccanismi giuridici atti a rendere effettivo l’accesso individuale ai servizi essenziali.

 

In Svizzera si sono smantellati i monopoli, introducendo liberalizzazione e concorrenza. In altri paesi, anche recentemente, si torna a nazionalizzare o municipalizzare. Cosa è meglio per il cittadino?

Per me è importante che il concetto di servizio pubblico o universale venga affrancato dal dibattito dogmatico del “più Stato” o “meno Stato” e non venga usato per stigmatizzare a priori la concorrenza. In una società che evolve così rapidamente, non si può dire a priori se sia meglio il pubblico o il privato. Ci sono prestazioni di servizio pubblico (ad esempio nel settore delle telecomunicazioni) che oggi vengono fornite dal mercato in maniera soddisfacente. Ciò che è invece necessario è che, a prescindere dalla proprietà delle imprese che offrono questi beni e servizi, il diritto offra ad ogni individuo un paracadute da aprire quando il mercato non è più in grado di procurargli, a condizioni eque, quelle prestazioni che gli permettono di vivere una vita dignitosa e di realizzarsi ed integrarsi nella comunità. E qui si torna alla prima domanda!

Tratto da: