Cina e Covid: alla ricerca della verità

di Gabriele Battaglia, corrispondente da Pechino

 

Perché la Cina ha repentinamente cambiato la propria strategia di lotta al Coronavirus, ribaltandola completamente? È questa la domanda sulla bocca di tutti i cosiddetti “osservatori di cose cinesi” dalla fine di novembre 2022.

 

Premessa: non siamo in grado di dare una risposta esauriente, quello che ci preme fare è invece tentare di scorgere quale logica può avere indotto i vertici cinesi al dietrofront senza ricorrere alla solita spiegazione dei media euroatlantici: la Cina disfunzionale.

 

C’è una cronologia dell’uscita dal cosiddetto “azzeramento dinamico” che va sempre tenuta presente quando si cerca di comprendere gli eventi degli ultimi mesi.

 

Il 22 ottobre 2022 si conclude il ventesimo congresso del Partito comunista, data che da molti era tenuta d’occhio proprio per cogliere eventuali segnali di un rilassamento delle draconiane politiche anti-Covid, basate su test continui e confinamenti. Per la delusione di molti in Cina e non solo, il congresso ribadisce invece la linea della fermezza: si continua con il dongtai qinglin, azzeramento dinamico, che non pretende di cancellare completamente il virus dal paese – come si è pensato erroneamente sulla base della semplicistica traduzione “zero Covid” - ma è invece una mobilitazione di tutta la società, con le comunità di base (residenziali, di quartiere, etc) come prima linea del fronte, per tendere verso quell’obiettivo irraggiungibile. Nel momento in cui il congresso si conclude, c’è consenso nel ritenere che passerà ancora molto tempo prima del ritorno alla normalità. Anche tra gli stessi cinesi, chi fino a qualche settimana prima diceva “succederà qualcosa dopo il congresso” non ci crede più.

 

 

La grande sorpresa

A sorpresa, accade però che nel giro di venti giorni le autorità cominciano a fare le prove di un rilassamento graduale, con 20 linee guida emanate l’11 novembre. Ufficialmente, sono tese a “ottimizzare” il lavoro di prevenzione e controllo dei virus. Si va dall’eliminazione della voce “città a medio rischio” dal sistema in vigore, alla cancellazione delle misure di quarantena per i contatti non diretti dei positivi, fino alla riduzione da 7 a 5 giorni della quarantena in hotel per chi arriva in Cina. Inoltre, sono espressi molti divieti per i funzionari locali che negli ultimi mesi avevano un po’ troppo calcato la mano nell’applicazione delle draconiane norme di azzeramento dinamico. Per esempio, si stabilisce che non è più possibile chiudere aree a rischio arbitrariamente e bisogna comunque garantire i servizi essenziali. In pratica, la leadership scarica sui funzionari di basso livello le responsabilità di una presunta malagestione della strategia anti-Covid altrimenti “scientificamente fondata”.

 

Probabilmente, di fronte all’esasperazione diffusa, i leader cercano di rassicurare così la popolazione e soprattutto di infondere quel briciolo di ottimismo fondamentale anche per l’economia e gli investimenti stranieri.

 

Alcuni eventi determinano però un’accelerazione.

 

Il 15 novembre, a Guangzhou c’è una vera e propria insubordinazione di lavoratori migranti, che abbattono le recinzioni della comunità residenziale dove sono confinati ed escono in strada, sotto il naso di impotenti dabai, le tute bianche addette alle misure anti-Covid.

 

Il 23 novembre, scoppia una rivolta – più che una protesta - allo stabilimento della Foxconn di Zhengzhou, la più grande manifattura al mondo di iPhone, dove lavorano circa 200mila persone. Un mese prima era stato scoperto un focolaio di Covid interno allo stabilimento - che è taiwanese – ed era stato adottato un sistema “a circuito chiuso”: la fabbrica era stata blindata con i lavoratori dentro. Così, a migliaia erano fuggiti scavalcando le recinzioni, tant’è che per trattenere il personale e attirare più lavoratori, Foxconn aveva deciso di offrire bonus e salari più alti, anche su pressione di Apple, terrorizzata dall’ipotesi di una riduzione della produzione. Era intervenuto pure il governo della municipalità di Zhengzhou, per cui Foxconn è risorsa fondamentale, esortando militari in pensione e anche impiegati pubblici a fare turni di lavoro all’interno della fabbrica.

 

La protesta di fine novembre nasce proprio dal mancato pagamento dei bonus e dei salari maggiorati che erano stati promessi un mese prima e, in subordine, per le difficili condizioni di vita nella fabbrica in isolamento. Così, i lavoratori si scontrano con le forze di sicurezza e con le tute bianche, creando un caso nazionale e internazionale.

 

 

Le proteste si allargano

L’episodio più grave si verifica il 24 novembre, quando dieci persone muoiono nell’incendio di un condominio a Urumqi, nello Xinjiang, probabilmente proprio a causa delle barriere anti-Covid che hanno impedito ai soccorsi di intervenire.

 

Da questo momento, un’ondata di proteste si estende alle università del paese – in almeno 80 campus hanno luogo manifestazioni di vario genere – e a città importanti come Pechino, Shanghai, Guangzhou, Chengdu, Wuhan. Gruppi di cittadini, in genere del nuovo ceto medio urbano, non chiedono solo la fine delle restrizioni da Covid, ma in alcuni casi anche libertà d’espressione e addirittura qualcuno viola il tabù più indicibile, chiede cioè le dimissioni di Xi Jinping, ritenuto il principale responsabile di una drastica marcia indietro rispetto a ciò che i cinesi hanno sperimentato negli ultimi decenni: una libertà quotidiana fatta di movimento, consumo, anche di discussione almeno fino a un certo limite.

 

La trasversalità delle proteste non si vedeva da anni: migranti, operai della Foxconn, ceto medio urbano esasperato, ma anche la povera gente che ha perso il lavoro e gli studenti nelle università.

 

Le agitazioni si esauriscono intorno al 29 novembre (durano fino al 4-5 dicembre in alcuni campus).

 

Il 6 dicembre, il Quotidiano del Popolo – organo ufficiale del Partito comunista – pubblica un articolo su come affrontare il Covid in una “nuova fase”, con interviste a medici ed esperti. Si parte dal messaggio per cui anche grazie al miglioramento di cure mediche e vaccinazioni, la variante Omicron non è così pericolosa, per poi fare un bilancio dei casi: al 90 per cento sono asintomatici o hanno sintomi leggeri, pochi sono i casi definiti “ordinari” e ancor meno quelli gravi. L’articolo aggiunge che i casi gravi e i soggetti vulnerabili devono essere trattati in ospedale e che non c’è nessun problema particolare per bambini e donne incinte.

 

 

Il messaggio cambia

Insomma, il messaggio si è ribaltato in meno di un mese: il Covid non è più qualcosa da cui essere terrorizzati o di cui vergognarsi.

 

Intanto, fonti anonime rendono noto che per tutto il periodo che va dalla fine del congresso a inizio dicembre ci sarebbero state pressioni politiche da parte sia degli operatori sanitari sia del mondo degli affari per un rilassamento delle misure anti-Covid.

 

Il 7 dicembre arriva l’inversione a U con le cosiddette “10 misure”.

 

Tra le varie novità, è sancita l’abolizione della quarantena centralizzata per i positivi: si sta in casa a meno che i sintomi siano gravi. Poi si limita drasticamente la possibilità per i governi locali di ordinare confinamenti e non è più necessario fare test continui, le app di tracciamento che per quasi tre anni hanno accompagnato la vita quotidiana di ogni cinese sono in parte disattivate.

 

È chiaro il messaggio che viene dall’alto: liberi tutti. A corollario, si ordina di intensificare la vaccinazione delle categorie deboli, soprattutto gli anziani.

 

Comincia così un periodo di caos, in cui gli ospedali si affollano, le terapie intensive scoppiano, i crematori intensificano le attività. In questa fase è incredibile osservare come una popolazione fino a un minuto prima apparentemente isolata dal virus ne venga immediatamente sommersa. L’amico, il conoscente, il vicino di casa, tu stesso; sembra che tutti stiano prendendo il Covid nel giro di pochissimi giorni.

 

Subito prima di Natale, comincia a circolare su WeChat (la app indispensabile per fare qualsiasi cosa in Cina) un documento la cui attendibilità non è verificata, ma che viene ripreso da tutti i media occidentali. Dovrebbe essere il riassunto di una riunione della Commissione Nazionale di Sanità del 21 dicembre, in cui si afferma che nel solo 20 dicembre ci sono stati 37 milioni di nuovi casi di Covid in Cina, cioè il 2,62 per cento della popolazione complessiva (per intenderci, è come se in Svizzera ci fossero 228mila nuovi contagi in un giorno solo). Dal 1 al 20 dicembre – riporta il documento - i casi stimati in tutta la Cina sarebbero stati 248 milioni, cioè il 17,56 per cento della popolazione. Due province avrebbero un tasso di contagi superiore al 50 per cento, Pechino e il Sichuan. Ci sarebbero sei città con oltre 5 milioni di contagi, vale a dire Pechino, Chengdu, Wuhan, Tianjin, Zhengzhou e Chongqing.

 

Starebbero circolando 12 sottovarianti di Omicron e si pensa che il picco in molte province sarà raggiunto a fine dicembre.

 

I casi gravi sarebbero solo l’1,83 per cento del totale (parliamo però pur sempre di 4 milioni e mezzo di persone) e, di questi, il 98,17 per cento aveva serie malattie pregresse.

 

Si specifica che gli ospedali non possono rifiutare i pazienti gravi e anziani, mentre si costruiscono nuove strutture provvisorie. Non va catalogato come decesso da Covid il defunto con patologie pregresse, anche se positivo al momento della morte.

 

A prescindere dalla loro veridicità, il quadro che emerge da queste rivelazioni è attendibile sulla base della percezione diffusa: i cinesi stanno vivendo la situazione descritta sulla propria pelle.

 

 

La confusione dei dati

La mattina del giorno di Natale, la Commissione Sanitaria Nazionale cinese comunica che non pubblicherà più aggiornamenti quotidiani sulla pandemia. Il punto è che i dati ufficiali appaiono sempre più inattendibili. La vigilia, era stato diramato un bilancio ufficiale di 4130 nuovi contagi e nessun decesso nelle precedenti 24 ore. Di contro, la municipalità di Qingdao, nove milioni di abitanti, aveva dichiarato che fino a 530.000 persone erano state contagiate in un solo giorno, mentre a Dongguan (popolazione di 7,5 milioni), i funzionari sanitari locali avevano stimato il numero giornaliero di nuove infezioni tra le 250.000 e le 300.000. Quasi ovunque si denuncia una situazione di sovraffollamento negli ospedali, dove molti medici e infermieri sono contagiati. Si segnalano anche numeri alti nei crematori, ma le autorità sanitarie cinesi hanno deciso di contare come “morti da Covid” solo coloro che muoiono per problemi respiratori.

 

Il giorno successivo, 26 dicembre, proprio mentre il virus sta dilagando in tutto il paese, la stessa Commissione Sanitaria Nazionale comunica che dall’8 gennaio il Covid sarà declassato da malattia di tipo A – come per esempio la peste bubbonica e il colera – a malattia di tipo B - come la Sars e l’Aids - e quindi di fatto la Cina riaprirà al mondo esterno senza quarantene all’ingresso. Una presa di coscienza dell’inutilità di alzare barriere di fronte alla viralità di Omicron?

 

A questo punto, il discorso è già configurato su nuove linee guida. Bisogna stabilire una continuità tra la fase precedente di “azzeramento dinamico” e quella nuova di “liberi tutti” dimostrando la scientificità e la razionalità di entrambe. Come ci disse un giorno un vecchio contadino cinese: “Quando c’era Mao, andava bene Mao; adesso c’è Xi e va bene Xi”, nonostante il ribaltamento delle politiche avvenuto nel frattempo. Non si tratta di negare che esistono problemi, sarebbe impossibile, ma di rivendicare una coerenza nelle scelte della leadership e delle autorità sanitarie.

 

Il 2 gennaio, CMG – la sigla che conglomera i principali media di Stato – diffonde un’intervista a Jiao Yahui che rilasciano le dichiarazioni forse più dettagliate sulla situazione della “guerra di popolo” contro il Covid.

 

 

Le nuove direttive

In sintesi, i due importanti funzionari sanitari ribadiscono che l’azzeramento dinamico è stato indispensabile per frenare la diffusione del contagio nella fase in cui il Covid era più letale; a un certo punto però è arrivata Omicron con le sue sottovarianti e le autorità sanitarie si sono rese conto che il virus si diffondeva comunque, a prescindere da isolamenti e confinamenti; a questo punto hanno deciso di puntare sugli “ospedali della febbre” (noi diremmo un reparto ospedaliero dedicato esplicitamente alla cura del Covid) e al 25 dicembre ne avevano edificati circa 57mila. Sono spesso strutture prefabbricate, costruite velocemente specificamente per questa fase; poi, quando calerà il picco dei contagi, saranno smontate o riconvertite in terapie intensive. Nel frattempo, le autorità cinesi hanno iniziato a costruire pronti soccorso e terapie intensive, perché intorno alla seconda-terza settimana dopo il picco dei contagi, con l’aumento dei casi gravi, la pressione si sposta dalle cliniche della febbre a queste altre strutture. Il processo, al momento dell’intervista, è ancora in corso. Per non intasare le strutture, hanno

a) stabilito che le risorse degli ospedali devono privilegiare pronto soccorso e terapie intensive,

b) deciso che chi accede alle unità d’emergenza ci resta per un massimo di 24 ore (poi viene spostato in altri reparti),

c) inventariato le persone a rischio nelle comunità residenziali e, con i comitati locali, puntato sulla prevenzione.

Se una di queste persone presenta sintomi, viene immediatamente portata negli ospedali di livello 3 (il livello più alto). Con l’arrivo del capodanno cinese (22 gennaio), quando molti migranti fanno ritorno alle zone rurali, le autorità sanitarie si propongono di approntare con i governi locali un sistema di “medicina dell’ultimo miglio” per coprire tutto il paese.

 

Poi, i due funzionari medici riconoscono che il problema grosso - quello che ha mandato su tutte le furie la popolazione - è la mancanza di medicinali per curarsi da soli. In sostanza, ti dicono di curarti a casa e poi le medicine non ci sono, la qualcosa ha già dato vita a un fiorente mercato nero. Jiao e Tong ammettono che c’è stato un errore, perché fino all’aumento esponenziale dei casi sono stati seguiti criteri di mercato, cioè l’offerta di medicinali corrispondeva alla domanda. Quando la domanda è esplosa repentinamente, l’offerta ha fatto fatica a starci dietro (ndr. la settimana precedente all’intervista, le autorità cinesi avevano dato il via libera a 26 nuovi medicinali, anche d’importazione).

 

Infine concludono dicendo che i casi gravi sarebbero intorno al 3-4 per cento del totale e aggiungono che bisogna attendere 2-3 settimane dopo il picco dei contagi (che sta avvenendo in tempi diversi a seconda dei luoghi, le maggiori città l’hanno già avuto) perché sono le più critiche. Dopo quel lasso di tempo, confidano di vedere un miglioramento della situazione complessiva.

 

Questa ricostruzione ci suggerisce che la Cina come al solito risponde alle emergenze con le sue caratteristiche o, per meglio dire, risorse disponibili, che hanno a che fare con le economie di scala.

 

Prima di tutto crea le piattaforme, cioè il contenitore, cioè l’infrastruttura materiale: gli ospedali costruiti a tempo di record, la loro rapida riconversione in qualcos’altro. Inoltre – e soprattutto – scatta la mobilitazione in versione contemporanea (meno “di massa” e più tecnocratica): il personale dell’ospedale che si sposta da un reparto all’altro a seconda delle circostanze; le comunità residenziali per il monitoraggio dei casi a rischio e la vaccinazione degli anziani; i governi locali per predisporre la “medicina dell’ultimo miglio”.

 

 

La spiegazione scientifica

Il 9 gennaio, appare sul Wen Wei Po – un giornale pro-Pechino pubblicato a Hong Kong – un’intervista a Liang Wannian, epidemiologo la cui notorietà risale ai tempi della Sars (2003), capo della task force anti Covid all’interno della Commissione Sanitaria Nazionale, che ha il compito di spiegare come mai la Cina abbia cambiato politiche così repentinamente.

 

Possiamo sintetizzare la spiegazione di Liang nella formula “cogli l’attimo”.

 

Spiega infatti che è stato deciso di mandare in soffitta azzeramento dinamico e relative restrizioni proprio in inverno e tutto d’un colpo, perché le autorità hanno preso atto del fatto che il Covid è endemico, ma al tempo stesso Omicron nelle sue varianti attuali non è così letale. Inoltre, i medicinali per le cure domestiche hanno raggiunto un livello accettabile. Ma il punto più importante – secondo Liang – è che il periodo attuale è la finestra temporale più adatta per creare l’immunità di gregge: la Cina avrebbe infatti raggiunto un livello ottimale di vaccinazioni, per esempio tre dosi per l’80 per cento degli anziani. L’estate scorsa era solo il 40 per cento, mentre l’estate prossima l’effetto del vaccino scadrà per molti. Quindi le autorità hanno deciso che questo è il momento giusto, anche se è inverno.

 

Va qui ricordato che tutti i vaccini disponibili oggi a livello globale sembrano poco efficaci nel prevenire il Covid in sé, ma sono invece molto efficaci nel prevenire i casi gravi. Nello specifico, quelli cinesi sarebbero efficaci quanto i vaccini mRNA occidentali, qualora se ne facciano 3 dosi. Con le prime 2 dosi, i vaccini cinesi sono invece meno efficaci per la popolazione over 60. Inoltre, la protezione dei vaccini cinesi sembrerebbe svanire più velocemente.

 

In sintesi, fino a poco tempo fa, il problema era che la maggior parte dei cinesi non aveva fatto 3 dosi, specialmente gli anziani; a breve sarà invece che molti dei vaccinati avranno fatto l’ultima dose ormai da parecchi mesi e l’effetto protettivo sarà dunque svanito. Ecco la necessità di “cogliere l’attimo” per avviare l’immunizzazione di gregge.

 

A questo punto, aggiunge l’epidemiologo, la linea del fronte, si sposta dalle comunità di base alle strutture ospedaliere. Non bisogna prevenire, bensì curare (i casi gravi), diremmo noi.

 

Certo rimane tuttora inevasa una grande domanda: come mai il paese è apparso così disorganizzato al momento della riapertura? Detta altrimenti, se si sapeva da mesi che Omicron non è così letale, se si pensava a uno spazio-finestra per riaprire, come mai poi ci si è trovati con le terapie intensive intasate, con gli scaffali delle farmacie vuoti, con gli anziani morenti? È tutto ciò strutturale a un paese come la Cina, dove la scala quantitativa impone sempre una certa dose di pressapochismo o aggiustamento in corso d’opera (in cinese si dice chabuduo)?

 

Wang Xiangwei, un analista cinese, ha azzardato che l’idea di aprire fosse lì da tempo; ma quando è arrivato il semaforo verde tutto è diventato caotico perché è ancora in corso il passaggio di consegne tra vecchia e nuova nomenklatura, dopo il congresso del Partito dello scorso ottobre. Il rimpasto all’interno del Partito-Stato dovrebbe concludersi alla doppia sessione dei parlamenti (Lianghui) della prossima primavera. Oggi, ci sono quindi dei buchi nell’apparato. È tuttavia assolutamente pretestuoso e propagandistico guardare all’esperienza cinese per rivendicare una presunta migliore gestione dell’emergenza epidemica da parte dell’Occidente euro-atlantico, pratica abituale da cui discende la stantia riproposizione del sistema liberalcapitalista come unico mondo possibile (per onestà intellettuale va sottolineato che anche la Cina – e in particolare Xi Jinping – ha utilizzato più volte il Covid in chiave propagandistica per rivendicare la superiorità del proprio modello politico). Solo una cinica conta dei morti renderebbe possibile in ultima analisi un giudizio di questo tipo, esercizio per altro improbabile a causa della mancanza di dati omogenei e di parametri condivisi.

 

Di fatto va detta anche un’altra cosa: il virus corre più forte della capacità di prevedere e prevenire della politica. Il Covid, in questo senso, è una metafora e anche un monito.

 

 

Il virus di classe

Un’ultima osservazione. In un articolo per la New Left Review, The Death Gap (18 gennaio 2023), Marco D’Erano analizza come le morti da Covid siano avvenute secondo linee di classe nell’Occidente liberalcapitalista, una diseguaglianza nella morte che ha intensità diverse a seconda dell’accessibilità al sistema sanitario libero, universale e gratuito.

 

Scrive D’Eramo: «In effetti, la forma più importante di “distanza sociale” imposta dalla pandemia non era spaziale, non era una questione di metri. Era la distanza temporale tra ricchi e poveri, tra coloro che potevano sfuggire ai peggiori effetti del virus e coloro le cui vite ne erano state abbreviate. La modernità ha stabilito un baratro biopolitico – un allontanamento sociale della morte – che è stato ampliato e accentuato dalla crisi del Covid-19. Ciò è stato dimostrato da una litania di studi in vari paesi. Ad esempio:

In questa analisi retrospettiva di 1.988.606 decessi in California tra il 2015 e il 2021, l’aspettativa di vita è diminuita da 81,40 anni nel 2019 a 79,20 anni nel 2020 e 78,37 anni nel 2021. Le differenze nell’aspettativa di vita tra i tratti del censimento nei percentili di reddito più alto e più basso sono aumentate da 11,52 anni nel 2019 a 14,67 anni nel 2020 e 15,51 anni nel 2021.»

 

Insomma, il virus ci ha resi tutti uguali? Il virus non guarda in faccia a nessuno? La risposta è “no”.

 

Sarebbe interessante comprendere se questa radicale forma di diseguaglianza – perché ha a che fare con l’essenziale, la nuda vita – sia all’opera anche in Cina. Nella fase dell’azzeramento dinamico pensiamo di no, confinamenti e isolamenti valevano per tutti. Nessuno aveva la “libertà di morire”, possiamo dire. Con il “liberi tutti”, la storia è ancora da scrivere.

Tratto da: