Di crisi bancarie e di politici perlomeno inetti
L'editoriale - Q43
L’opinione pubblica svizzera è tuttora scossa per quanto è capitato durante il weekend di San Giuseppe, quando Banca Nazionale e Consiglio Federale mettendo sul piatto 259 miliardi hanno in extremis salvato dal fallimento Credit Suisse, anche se l’ineffabile Keller-Sutter spergiura che non si sia trattato di un salvataggio, ma di una semplice operazione commerciale!
Di fronte all’enormità dell’evento c’è chi ha versato lacrime sui bei tempi passati, quando a Paradeplatz non si parlava inglese, ma i capi delle grandi banche svizzere, quasi sempre consiglieri nazionali liberali nonché colonnelli di stato maggiore, reggevano i loro istituti secondo una rigida etica protestante, che escludeva speculazioni azzardate. Anche se poi il sempre osannato A. Escher, fondatore di Credit Suisse nel 1856 e realizzatore della galleria del Gottardo, non si fece troppi patemi d’animo a finanziare anche la tratta degli schiavi: ma di questo “peccatuccio” in pochi se ne sono ricordati.
C’è chi a denti molto stretti ha riconosciuto che l’andazzo è cominciato con l’introduzione del segreto bancario, che ha permesso di fare lautissimi guadagni senza nessuno sforzo, permettendo così anche l’ascesa nei piani alti degli istituti bancari di personaggi che definire mezze calzette è ancora far loro un complimento.
C’è chi, come incredibilmente la maggioranza degli economisti svizzeri, anche se di fede liberale, si è chiesto come mai il Consiglio Federale abbia permesso ad UBS di comprare per un piatto di lenticchie il Credit Suisse invece di procedere, visti i mezzi messi in campo, ad una nazionalizzazione, fosse pure parziale o a tempo determinato. Ciò avrebbe permesso alla Confederazione, presto o a termine, di guadagnare parecchi miliardi: ed ora invece, contabilizzando i regali fatti a UBS, la gelida Keller-Sutter sta già programmando di tagliare i sussidi alla disoccupazione, all’AVS, alla ricerca, ai trasporti, ecc. ecc.
A questo punto ci si può chiedere se si tratti solo di inettitudine almeno della maggioranza del Consiglio Federale o se, dato che le grandi banche già foraggiano lautamente i partiti borghesi e l’UDC, non ci siano di mezzo cose ben peggiori. Come usava ripetere Andreotti, pensando male si fa peccato, ma di solito ci si azzecca. Volendo allargare il discorso non possiamo non sottolineare come il Consiglio Federale agendo a spron battuto con il diritto d’urgenza (tra l’altro annullando con un tratto di penna ben 16 miliardi di obbligazioni!) abbia macroscopicamente dimostrato a tutti come lo spazio della democrazia nell’attuale capitalismo finanziarizzato si sia ormai ridotto al lumicino. Anche i più tetragoni ideologi del neoliberismo dovrebbero aver capito che il capitalismo ha ormai cambiato il rapporto tra economia e politica, di modo che le banche centrali e le istituzioni finanziarie internazionali hanno ormai sostituito gli Stati come arbitri, essendo attualmente loro, e non gli Stati, a stabilire la maggior parte delle regole principali che governano le relazioni essenziali della società capitalista. E che tra l’altro impediscono a priori una legislazione democratica in materia di lavoro e di ambiente. E da qui la crescente precarietà nonché l’ingravescente crisi climatica.
Ma torniamo a quei giorni convulsi: quando tutti si chiedevano come avrebbe fatto UBS a digerire il Credit Suisse, dal cappello dei funamboli di Paradeplatz è rispuntato in funzione di salvatore della patria Sergio Ermotti. Questo colpo di scena ha rasserenato le Borse, ma sicuramente non gli impiegati delle due banche: inizialmente si era parlato di 10'000 posti di lavoro in pericolo, negli ultimi giorni c’è addirittura chi ha cominciato a far circolare la cifra di 30'000. Dello stesso Ermotti noi ci ricordiamo il suo incendiario discorso d’addio di qualche anno fa, nel quale ingiungeva alla politica svizzera di piantarla di voler mettere paletti troppo stretti (!!!) alle nostre banche, minacciando addirittura il trasferimento della sede di UBS all’estero. Per qualcuno che ora è in odore di salvatore della patria, non c’è male...
Allargando ancora di più il discorso, dobbiamo chiederci come mai le crisi bancarie si stiano susseguendo a ritmo sempre più veloce. Semplificando al massimo possiamo vedere due ragioni. La prima ha a che fare con uno dei principi base del neoliberismo, quello della shareholder value, cioè dei guadagni borsistici a breve scadenza come motore principale del capitalismo finanziarizzato. Ciò favorisce speculazioni anche molto azzardate, che però portano ad enormi guadagni se hanno successo, soprattutto se poi si può contare, come è stato il caso finora, sul salvataggio degli Stati se le cose vanno male. Il secondo elemento ha a che fare con una delle scoperte di Marx e cioè che il capitalismo va in crisi se il cosiddetto tasso di profitto scende continuamente. In altre parole: i detentori di capitali devono dannarsi l’anima per far sì che i loro soldi continuino a rendere.
La crescita capitalistica è crescita composta e la crescita composta oggi è il vero problema. Il capitale sta difatti incontrando difficoltà reali nel trovare occasioni d’investimento rimunerativo per i circa 100'000 miliardi rappresentati attualmente dall’economia mondiale.
Una delle possibili scappatoie da questo dilemma è rappresentata dalla speculazione borsistica, compreso l’invenzione di nuovi strumenti sempre meno comprensibili, come gli innumerevoli derivati o i bitcoins.
Un’altra possibilità di investimenti redditizi, usata in modo sempre più massiccio negli ultimi 30 anni, è rappresentata dal complesso industrial-militare. Basterebbe vedere come siano esplose a livello mondiale gli investimenti bellici, che naturalmente poi ad un dato momento richiedono anche che ci siano delle guerre. Ecco perché è difficilmente pensabile che il capitalismo possa sopravvivere senza guerre. E qui torniamo alle conclusioni dell’editoriale del nostro numero precedente (“Contrariamente al capitalismo, noi vogliamo la pace!”), a proposito anche dell’attuale guerra in Ucraina.
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