La politica estera USA guidata dal complesso militare-industriale

di Fabrizio Tonello, politologo Università di Padova

 

Forse sarebbe giunto il momento di dire che gli Stati Uniti hanno una politica estera quanto uno schizofrenico ha una personalità: ci sono delle costanti nel suo comportamento ma le reazioni immediate sono contraddittorie e imprevedibili.

Per esempio, Joe Biden sembra voler riportare la politica americana agli anni Sessanta, quelli del conflitto permanente sia con la Russia che con la Cina, attraverso alleati locali (allora Vietnam e Taiwan, oggi Ucraina e – di nuovo – Taiwan). Nello stesso tempo, la maggioranza repubblicana alla Camera, i candidati alle primarie del 2024 Donald Trump Ron DeSantis, più un robusto plotone di opinionisti che va da Henry Kissinger alla star di Fox News Tucker Carlson, sostanzialmente pensa che Zelensky vada mollato al più presto. Le motivazioni di questi dissidenti sono varie, talvolta esplicite, più spesso no; talvolta buone, talvolta pessime. Più o meno tutti sono d’accordo sul fatto che la guerra in Ucraina costa troppo: gli studiosi più seri, come Andrew Bacevich e John Mearsheimer sottolineano il carattere distruttivo e fallimentare degli interventi militari americani all’estero, in particolare dal 2001 in poi.

L’establishment politico militare di Washington ha la memoria corta: la fuga da Kabul nel 2021 avrebbe potuto essere l’occasione per dichiarare la finita l’era degli interventi militari ai quattro angoli del mondo: al contrario, grazie anche a Putin, il momento è passato. L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha fatto rivivere l’entusiasmo dei democratici per l’uso della forza da parte degli Stati Uniti, sia pure nella forma dell’uso di forze locali: così come c’erano state le truppe vietnamite, e poi afgane, addestrate e pagate dal Pentagono per decenni, oggi nella steppa combattono giovani ucraini che consumano ogni settimana più armi e munizioni di quante gli Stati Uniti riescano a produrne.

La guerra in Iraq, iniziata 20 anni fa e mai veramente finita, è a sua volta sparita dalla memoria e l’amministrazione Biden sembra pronta a commettere gli stessi errori che hanno portato a quel disastro politico e umanitario, tutti giustificati dall’apparente obbligo di leadership globale. Oggi appare incontestabile ciò che disse Barack Obama, allora senatore dell’Illinois, nel 2002: l’imminente invasione era un “tentativo stupido”, “avventato” e “cinico” da parte di “guerrieri della domenica” per “farci inghiottire i loro programmi ideologici”. Malgrado due mandati alla Casa Bianca, però, Obama non è mai riuscito a mettere le redini al complesso militare-industriale americano e oggi la necessità della supremazia militare degli Stati Uniti con qualsiasi metro di misura (la spesa del Pentagono, il numero di basi all’estero o la propensione all’uso della forza) è diventata un articolo di fede.

Per rintracciare le origini di questa visione del mondo occorre partire da lontano: almeno dal 1947 quando Harry Truman, un mediocre politico americano diventato presidente per caso alla morte di Franklin Roosevelt, decise di sostenere i governi greco e turco contro “l’espansionismo sovietico” aprendo così il vaso di Pandora dell’interventismo americano ai quattro angoli del mondo nei decenni successivi. Le guerre in Corea e in Vietnam non furono che la conseguenza inevitabile dell’approccio semplicistico e manicheo che dominava la formazione culturale e politica delle élite di Washngton.

Il testo dove questo approccio viene espresso più chiaramente è un documento del 1948 chiamato NSC-68 (rimasto segreto per decenni) dove il leader intellettuale della guerra fredda, Paul Nitze, presentava l’argomentazione-base a favore dell’egemonia americana: “In un mondo che si restringe, l’assenza di ordine tra le nazioni sta diventando sempre meno tollerabile”. Questo fatto avrebbe ‘imposto’ agli Stati Uniti “la responsabilità della leadership mondiale” e l’obbligo di “portare ordine e giustizia con mezzi coerenti con i principi di libertà e democrazia”. Non sarebbe bastato contenere la minaccia sovietica: ciò di cui gli Stati Uniti avevano bisogno era la capacità e la volontà di coercizione verso i paesi che in qualche misura cercavano di sottrarsi all’ordine americano globale. Di qui l’idea di capacità militari illimitate, da usare come forza di polizia globale. La diplomazia divenne un’appendice della potenza militare.

Sulla cosiddetta Guerra fredda iniziata allora si sono scritte intere biblioteche ma troppo spesso si dimentica che in realtà non fu mai “fredda”: costò la vita a milioni di coreani e vietnamiti, oltre che a decine di migliaia di americani in Corea e in Vietnam. Senza contare il mezzo milione di comunisti uccisi in Indonesia nel 1965, i colpi di stato in Iran (1953), Brasile (1964) e Cile (1973). Fanno parte dello stesso manuale gli interventi meno sanguinosi a Cuba (1961-62) che però portarono con sé il rischio di un olocausto nucleare.

Come si sa, a Cuba c’erano missili sovietici pronti al lancio mentre a Washington c’erano generali e diplomatici che premevano per un’invasione immediata dell’isola. Si è scoperto solo molto tempo dopo che i militari russi sull’isola avevano ordine di lanciare i missili contro gli Stati Uniti in caso di sbarco dei marines, senza richiedere ulteriori autorizzazioni a Mosca. Ne parla per esempio, lo storico di Harvard Serhii Plokhy in un suo libro dal titolo eloquente: Nuclear Folly: A History of the Cuban Missile Crisis.

La frequente insistenza di Biden sul fatto che il destino dell’umanità dipende dall’esito di una lotta cosmica tra democrazia e autocrazia aggiorna il tema centrale di una teologia americana che risale ai fanatici religiosi che nel 1620 sbarcarono in Massachusetts dal Mayflower. Questa visione manichea tradotta in istruzioni operative nell’NSC-68 persiste oggi, 70 anni dopo la morte di Stalin e 32 dopo lo scioglimento dell’Unione Sovietica. Non solo: il periodo pragmatico della politica estera degli Stati Uniti inaugurato dalla presidenza Nixon, con l’apertura alla Cina, sembra anch’esso finito.

Era il 1958 quando il mondo si trovò sull’orlo di un conflitto nucleare attorno alla sorte di due insignificanti isolette contese fra Repubblica popolare e Taiwan: Quemoy e Matsu. Il viaggio di Henry Kissinger a Pechino nel 1972, invece, aprì esattamente mezzo secolo di collaborazione, amicizia, alleanza, trasformando la Cina nella fabbrica del mondo e permettendo ai consumatori americani di mantenere un potere d’acquisto decente mentre i salari stagnavano e i sindacati scomparivano. Nel 2022 un altro viaggio, stavolta a Taiwan, dell’allora Speaker della Camera Nancy Pelosi, una gratuita provocazione nei confronti di Pechino, ha segnato simbolicamente la fine del ciclo. Ciò che è venuto dopo, come l’isteria del febbraio scorso attorno al presunto pallone-spia cinese sui cieli del Montana non è che la conseguenza di un radicale cambio di atteggiamento avvenuto già da qualche anno.

Donald Trump aveva posto la questione in termini commerciali: il permanente deficit di bilancio degli Stati Uniti nei confronti della Cina (peraltro compensato dai continui acquisti di Buoni del Tesoro americani da parte di Pechino). Si trattava però di un approccio utile soltanto a raccogliere consensi tra gli elettori del Midwest, la questione più importante stava altrove, sul fronte della supremazia tecnologica: a un certo punto a Washington ci si è accorti che la Cina aveva raggiunto o superato gli Stati Uniti nel controllo delle cosiddette terre rare (una famiglia di materiali necessari per i computer di oggi e, ancora di più, di domani).

Ci sono poi i timori di perdere il monopolio sulle rivoluzioni tecnologiche nascenti: intelligenza artificiale e quantum computing (ne parla un interessante libro di Alessandro Aresu, Il dominio del XXI secolo). Tutto questo, insieme ad un atteggiamento più assertivo della Cina in politica estera, tra cui spicca il sostegno limitato ma reale a Putin, esibito nel marzo scorso con la visita di Xi Jinping a Mosca, ha messo in fibrillazione politici e burocrati nella capitale americana. Palesemente molti di loro sono in preda a quella che la Barbara Tuchman, parlando delle classi dirigenti europee del 1914, definiva “autoipnosi”, cioè credono alla loro stessa propaganda, il che è molto pericoloso.

Joe Biden sembra agire come Lyndon Johnson, un altro presidente tanto progressista in politica interna quanto bellicoso in politica estera. Johnson non capiva Ho Chi Minh, né il nazionalismo vietnamita, Biden pensa che Putin sia un tirannello di seconda categoria invece che l’espressione di una visione del mondo che risale a Pietro il Grande e che certo non può accettare la perdita della Crimea, oggetto di un’invasione occidentale già nel 1853. Anche l’attuale presidente americano sembra non capire la forza del nazionalismo altrui, centuplicata quando si tratta di difendere la Patria dall’occupazione straniera o dalla minaccia di perdita di territori storicamente russi. Il fatto che Putin sia andato a Sebastopoli il giorno dopo l’annuncio della sua incriminazione da parte della Corte Penale dell’Aja, è un segnale molto chiaro.

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