Anche dopo 75 anni la Nabka resta il fulcro dell’identità palestinese

di Michele Giorgio, corrispondente dal Medio Oriente

 

È la fine di aprile del 1948 in Palestina. Dopo oltre 25 anni, i britannici rinunciano al “mandato” sul territorio e pensano solo alla data ufficiale del loro ritiro: il 15 maggio. Sono giorni difficili, di combattimenti, morti, distruzioni, pulizie etniche.

 

I palestinesi resistono, come possono, con tutte le loro forze, alla realizzazione definitiva dell’impresa avviata alla fine dell’Ottocento dal movimento sionista ebraico che ritengono un progetto coloniale volto consegnare la loro terra o parte di essa a uomini e donne giunti dall’Europa. Da parte loro i leader sionisti, con David Ben Gurion in testa, hanno ormai deciso di agire in modo unilaterale, incuranti di considerazioni diplomatiche, delle posizioni espresse dalle nazioni amiche e degli avvertimenti lanciati dai paesi arabi. Sulla base degli otto punti che hanno approvato nel 1942 alla conferenza sionista di Biltmore, negli Stati uniti, intendono porre fine ad ogni indugio e proclamare al più presto la nascita dello Stato di Israele sulla porzione di Palestina assegnata loro nel 1947 dal Piano di Partizione dell’Onu. In cuor loro avrebbero voluto tutto il territorio, fino al fiume Giordano, ma Ben Gurion afferma che in quel momento è decisivo passare ai fatti sul terreno e prendere ciò che è disponibile. Per il resto del territorio palestinese si vedrà. E così è stato. Nel 1967 con la Guerra dei Sei Giorni, grazie all’attacco a sorpresa lanciato a siriani, giordani ed egiziani, Israele occuperà la rimanente porzione di territorio palestinese. E ancora oggi lo controlla tutto.

 

L’obiettivo era di realizzare uno Stato riconosciuto internazionalmente, a stragrande maggioranza ebraica. Da sempre i leader sionisti puntavano a questa soluzione sapendo che non avrebbero potuto concretizzarla con la presenza di centinaia di migliaia di palestinesi nei territori del futuro Stato di Israele. La Nakba, la “catastrofe” che ha visto almeno 750 mila palestinesi lasciare le loro case a causa dei combattimenti o cacciati via dalle milizie del movimento sionista, era già in atto da tempo, simboleggiata dal massacro dell’8-9 marzo del 1948 a Deir Yassin, alle porte di Gerusalemme, di circa 200 palestinesi circondati dalle forze dall’Irgun e da altri miliziani di destra decisi attraverso quella strage a diffondere il panico nella popolazione palestinese a Gerusalemme, intorno alla città e nel territorio del nascente Stato ebraico.

 

La guerra, scoppiata prima della proclamazione di Israele nel 1948, creò le condizioni per la Nakba e per l’esodo di centinaia di migliaia di palestinesi sotto la pressione delle armi e delle minacce. Persone che non scapparono dalla loro terra perché a chiederlo furono i Paesi arabi, questo mito diffuso da Israele e che per decenni si è aggirato per il mondo, è stato smentito dagli storici, alcuni anche israeliani, come Ilan Pappè, a partire dagli anni ’80. E anche se qualche accademico di rilievo, come Benny Morris, continua a negare l’esistenza di un piano scritto e approvato dai leader sionisti per la pulizia etnica della Palestina, quanto accaduto sul terreno e documentato da innumerevoli ricerche storiche indipendenti sembra andare esattamente in quella direzione. Il 15 maggio 1948 perciò non è ricordato solo come il giorno in cui la Gran Bretagna lasciò la Palestina e il giorno della nascita di Israele. È la data che generazioni di palestinesi continuano a segnare come l’anniversario della Nakba. I britannici fecero poco, di fatto nulla, per impedirla. Eppure erano ben consapevoli delle uccisioni, degli sfollamenti, ad Haifa, Akka, Giaffa e tante altre città e villaggi durante gli ultimi giorni del loro mandato.

 

La popolazione palestinese di Haifa in pochi giorni passò da 70.000 a 6.000. Ci sono almeno 250.000 rifugiati di Haifa che vivono in tutto il mondo, secondo i dati del 2008. Gli abitanti di Giaffa, oltre 50.000 palestinesi furono espulsi. Ora ci sono oltre 230.000 profughi di Giaffa nel mondo. Almeno 13.000 palestinesi furono uccisi e centinaia di villaggi distrutti mentre a centinaia di migliaia andavano verso i campi profughi in Libano, Siria, Giordania e in altri Paesi dove i loro discendenti – oltre cinque milioni – ancora oggi vivono spesso in condizioni di estremo disagio. Non è mai stato permesso loro di tornare, sebbene questo diritto sia stato sancito da una storica risoluzione dell’Onu. Si tratta della più lunga crisi di rifugiati irrisolta nella storia moderna. È storia anche che nel 1948-49, durante la “guerra dell’indipendenza” per gli israeliani, furono uccisi più di 6.000 ebrei, 4000 dei quali militari. Ma i palestinesi persero tutto e non solo, tanti di loro, la vita. Eppure, allora come oggi, assieme al resto del mondo occidentale, Londra non guarda alla storia imparziale della Palestina (sotto il suo mandato), documentata e scritta con professionalità. Piuttosto preferisce etichettare i palestinesi come artefici della propria catastrofe perché non hanno accettato nel 1947 la spartizione della Palestina. Una narrazione respinta seccamente dai palestinesi.

 

Settantacinque anni dopo la Nakba resta il fulcro dell’identità palestinese. Ogni uomo, donna e bambino palestinese tiene viva la memoria della “catastrofe” attraverso il folklore, musica, arte, poesia, cinema, letteratura, cultura. Ma parlarne, scriverne e discuterne è sempre più difficile, persino pericoloso. Per le autorità israeliane, sostenute dai governi occidentali, chi commemora la Nakba nel migliore dei casi vuole delegittimare lo Stato di Israele, nel peggiore sarebbe animato da sentimenti antisemiti. In una intervista data di recente al quotidiano italiano Il Manifesto, lo storico ebreo israeliano Ilan Pappè, docente all’Università di Exeter, autore di saggi sulla storia di Israele e la pulizia etnica della Palestina tradotti in molte lingue, ha spiegato che gli studi e ricerche sulla Nakba “contraddicono completamente la narrazione ufficiale israeliana concepita ad uso interno ed internazionale” e l’idea che Israele non abbia avuto alcuna responsabilità nelle vicende del 1948 di cui sono stati vittime i palestinesi”. Pertanto, ha aggiunto, “La preoccupazione delle autorità israeliane è che diffondendo, discutendo e analizzando gli esiti degli studi fatti dagli storici sulla Nakba si ponga una questione morale sulla fondazione dello Stato di Israele” e “se si comincia con questi interrogativi si arriva a sollevare una questione morale sull’intera impresa sionista (in Palestina, ndr) e a chiedersi perché il mondo ha permesso l’espulsione dei palestinesi”.

 

Nella stessa intervista, Pappè commentando l’atteggiamento di Paesi occidentali e istituzioni internazionali che preferiscono ignorare se non addirittura oscurare il fondamento storico della Nakba, spiega che queste parti internazionali “non intendono entrare in conflitto con Israele ed esporsi al rischio di accuse di antisemitismo che sempre più spesso sono rivolte a chi critica e solleva dubbi”. Vanno considerati, aggiunge, anche i rapporti economici, le vendite di armi, le relazioni di sicurezza con Israele. Pertanto, sottolinea lo storico, “è molto più semplice ignorare la Nakba, zittire i palestinesi e negare la loro narrazione oltre che le loro aspirazioni” nonostante la società civile occidentale “sia sempre più consapevole della Nakba e di quanto accade oggi nei Territori palestinesi occupati e si aspetta che i governi adottino delle politiche concrete contro la negazione dei diritti e di condanna di abusi e violazioni”. Queste considerazioni del professor Ilan Pappé hanno trovato di recente una ulteriore conferma nelle osservazioni fatte in occasione del 75esimo anniversario della nascita di Israele dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen che rilanciano slogan compiacenti come “Israele fa fiorire il deserto” che non aiutano una ricostruzione più obiettiva di quanto è accaduto nella Palestina storica e non favoriscono una soluzione per i palestinesi fondata sul diritto internazionale.

 

Nei giorni scorsi il docente della Columbia University, Hamid Dabashi, ha spiegato, e in qualche modo avvertito, sul portale Middle East Eye, che “il destino di milioni di israeliani e palestinesi richiede una soluzione audace e provocatoria che guardi il mondo in faccia”. Con la prolungata occupazione (israeliana di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est), ha aggiunto, “tutti palestinesi sono diventati abitanti di seconda e terza classe della propria terra. Ciò ha trasformato il movimento di liberazione nazionale palestinese in un movimento per i diritti”. Gli israeliani perciò, ha concluso, “hanno una scelta: continuare a vivere sui sanguinosi campi di battaglia di un’ideologia mal concepita, ora guidata dai fanatici della Knesset, o unirsi ai palestinesi per riformulare il loro comune futuro in termini più dignitosi, civili, giusti e democratici”.

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