Mass Shooting - La macabra piaga americana

di Luca Celada, corrispondente da Los Angeles

 

La mattina del 6 settembre 1949, un giovane schivo di nome Howard Unruh ha fatto colazione presto ed è uscito dalla casa in cui viveva con la madre a Camden, New Jersey, con una semiautomatica Luger P08 e le tasche piene di proiettili. 

Nell’ora successiva Unruh ha attraversato il quartiere sparando a vicini contro i quali, sarebbe emerso, covava odio rancoroso, più una serie di vittime “collaterali” comprese donne e bambini.

 

Prima che la polizia lo trovasse, asserragliato nel suo appartamento, aveva ucciso dodici persone e fatto numerosi altri feriti, un episodio di sangue all’epoca sconcertante che potrebbe essere considerato il capostipite dei “mass shootings” che da allora negli Stati Uniti sono diventati una piaga quasi quotidiana.

 

Unruh era un reduce della seconda guerra con sindrome post traumatica ed evidenti scompensi psichici, collocandolo all’intersezione di disagio mentale e potenza di fuoco che spesso caratterizza questi episodi (nell’attrito con i suoi vicini aveva avuto un ruolo la sua consuetudine ad esercitarsi al tiro col fucile nello scantinato).

 

Le morti per arma da fuoco nel paese superano ormai le 20000 all’anno (altre 25000 sono dovute a suicidi per mezzo di arma da fuoco) e, nel paese più benestante del mondo, morire ammazzati da un proiettile è da poco diventata la principale causa di mortalità infantile. Quest’anno rischia di segnare un ennesimo record in fatto di “mass killings,” statisticamente definiti come “sparatorie che provocano quattro o più vittime. ”L’anno scorso ce ne sono state ben 647 e solo dall’inizio di quest’anno oltre 135 vittime innocenti hanno già perso la vita a causa di quelle che si potrebbero definire ormai “stragi all’americana,” fenomeni che si abbattono con mortifera prevedibilità su luoghi pubblici e di culto, centri commerciali, locali pubblici, uffici – ovunque. Le dimensioni della crisi sono letteralmente epidemiche ed è non a caso oggetto di studio delle principali agenzie di salute pubblica, il CDC e l’NIH, preposte idealmente ad analizzare altri tipi di patogeni.

 

Dal dopoguerra, quando il caso di Unruh era ancora una eclatante anomalia, il fenomeno ha registrato una crescita inesorabile. Lo stragismo gratuito ed insensato è entrato a far parte della psiche nazionale e della produzione culturale; cinema e letteratura hanno trattato il nichilismo delle “sparatorie di massa” come tropo e metafora di disagio esistenziale. E dagli anni 80 si registra una vera e propria impennata nella frequenza che ha fatto di questi atti sconsiderati la costante piaga sociale che sono oggi: un fatto “normalizzato” della cronaca americana, che induce le ambasciate di paesi stranieri a mettere in guardia i propri cittadini in viaggio, e le scuole pubbliche a programmare esercitazioni di manovre evasive per gli studenti più in linea con addestramenti militari che curriculum scolastici. Alcuni istituti sperimentano ormai con bunker o paratie antiproiettile nelle aule per tentare di offrire riparo agli alunni. Il paese vive una paradossale distopia legata alla marea di armi da fuoco in cui si annaspa, che si attesta ormai sulle 120 unità in circolazione per ogni 100 abitanti, distaccando di gran lunga la nazione seconda al mondo per potenza di fuoco “civile”, lo Yemen (con 50 armi per cento abitanti.) C’è in questo paese una categoria statistica che potrebbe davvero esistere solo in USA: quella delle persone sopravvissute a più di una strage. È il caso di Jackie Matthews, studentessa di 21 anni che è sfuggita ai proiettili di uno “shooter” quando era alunna delle medie a Newtown, Connecticut nel 2012 e poi ancora da universitaria in East Lansing, Michigan, questo scorso 13 febbraio. O Brendan Kelly, un altro giovane che nell’ottobre del 2017 era fra il pubblico del concerto di Las Vegas trasformato nella peggiore carneficina della storia americana da un cecchino che, appostato nel Mandalay Bay Hotel, ha ucciso 60 persone ferendone altre 413. Nel novembre successivo, Kelly si trovava nel bar di Thousand Oaks, California, quando un uomo ha aperto il fuoco senza ragione, con una calibro 45, ammazzando 12 avventori prima di togliersi la vita.

 

Ma per quanto sia sconcertante questa macabra litania, il dato ancora più incomprensibile dell’enigma americano, per ogni osservatore esterno, certo, ma in fondo anche per una maggioranza di americani stessi, è l’apparente, congenita, incapacità di azione politica per arginare il fenomeno, l’impossibilità di adottare quei pur minimi provvedimenti cha la comune logica vorrebbe subito implementati. In primis cioè tentare di incidere sulla paradossale saturazione di armi da fuoco nella società. Malgrado le esortazioni di funzionari pubblici, ufficiali di polizia, politici e presidenti - per ultimo Joe Biden, che non cessa di implorare il Congresso perché addotti restrizioni almeno sulla vendita di armi da guerra - vige il più assurdo immobilismo. In fatto di armi da fuoco ci si addentra infatti in un complesso labirinto storico e psico-politico che è oggettivamente difficile da decifrare all’infuori dei parametri che rendono gli Stati Uniti, nelle parole del commentatore CNN Fareed Zakaria, “un altro pianeta.” L’alone quasi mistico che circonda l’ossessione nazionale per le armi da fuoco è costituzionalmente codificato nel famigerato “2° emendamento,” che sancisce il diritto armarsi nell’ambito delle “milizie civili ben regolate” che la costituzione del 1789 prevedeva potessero essere garanti, se necessario, contro moti controrivoluzionari. All’iscrizione nella carta fondante è seguita la sua adozione ad immutabile articolo di fede e la strumentalizzazione per fini politici. Soprattutto negli ultimi decenni la regola è stata elevata a dogma fondamentale dalla nuova destra tradizionalista – lo stesso movimento “originalista” che ha portato all’abrogazione del diritto all’aborto perché non iscritto nella costituzione. In questa concezione, le presunte volontà dei padri fondatori sono incontestabile verbo che nemmeno una strage infinita può indurre a modificare.

 

Ovviamente c’è di più.

Nel progressivo frazionamento e polarizzazione estrema della società americana, la variante sempre più intransigente ed oscurantista di conservatorismo ha fatto delle armi l’oggetto di una “culture war” in cui si fondono il parossistico antistatalismo e l’estremo individualismo. Le armi da fuoco sono quindi diventate totem, eccezione “culturale” e simbolo machista, significanti ideali della violenza come “destino manifesto,” che ha non poco a vedere con le origini, recenti e violente, del paese.

 

In questo contesto nemmeno i casi più raccapriccianti, quelli che prendono di mira scuole materne ed elementari, come i fatti devastanti di Sandy Hook in cui perirono 20 alunni delle elementari, oltre che due insegnanti, sembrano suscitare un obbrobrio morale sufficiente ad indurre all’azione politica. La destra (direttamente sovvenzionata, ricordiamolo, dalla lobby dei fabbricanti di armi) si trincera semmai ancora di più, in una proporzione che si direbbe direttamente collegata all’indignazione generale. Dopo la strage avvenuta lo scorso marzo alla Covenant School di Nashville (tre adulti e tre alunni di nove anni uccisi) i cittadini della città sono insorti e, assieme ad alcuni parlamentari, hanno inscenato proteste nel parlamento del Tennessee chiedendo riforme al porto d’armi. Per tutta risposta la maggioranza repubblicana ha espulso due deputati dalla Camera per “insubordinazione” e ne ha sanzionato una terza. In Texas, pochi mesi dopo la strage dell’anno scorso nella Robb Elementary School di Uvalde (vittime due insegnanti e 19 bambini), il governo ha abbassato da 21 a 18 anni l’età minima per il porto d’armi.

 

Alle richieste di norme più severe sul porto d’armi, oltre all’obbiezione costituzionale, la destra ribatte che la violenza dilagante è colpa del buonismo della sinistra troppo indulgente con i criminali. Proprio per questo le “persone per bene” debbono avere accesso alle armi per difendersi. D’accordo con questa logica, le proposte dei conservatori vertono su armare ed addestrare gli insegnanti, ad esempio, a rispondere al fuoco. E, nel solito Texas, una proposta di legge prevede l’addestramento degli studenti a partire dalla quarta elementare, alle tecniche di pronto soccorso a feriti da armi da fuoco, solitamente di competenza di unità paramediche militari. Il teorema morale infinitamente riproposto è che non sono le armi a nuocere ma solo chi le usa per fare male (le spaventose statistiche sulle morti accidentali di minori che trovano armi non custodite nelle proprie case, intanto, raccontano una storia ben diversa.)

 

Vista la diffusione quasi esclusiva del fenomeno in America, viene in mente Michael Moore che nel suo Bowling for Columbine, parafrasava lo slogan in “non sono le pistole ad uccidere, ma gli Americani,” per sottolineare un nesso non solo alla diffusione delle armi ma ad una qualche “predisposizione nazionale.” È lecito supporre che questa possa essere legata anche al “darwinismo sociale” di una società fortemente individualista, competitiva e priva di reti assistenziali, soggetta a una diffusa alienazione, acuita tra l’altro dalla disgregazione e l’isolamento online portato dalla pandemia.

 

Fra le cause di quella che deve a questo punto venire considerata una patologica disfunzione nazionale, ne va tuttavia inserita una ulteriore, più direttamente legata allo squilibrio politico dell’America contemporanea. Dall’attacco compiuto anni fa dal neonazista Dylan Roof contro la chiesa metodista afroamericana di Charleston, South Carolina, nel 2015 (nove vittime fra i congreganti riuniti in preghiera), si sono andati intensificando stragi compiute con un movente più preciso. A questa tipologia appartengono l’attacco alla sinagoga di Pittsburgh nel 2017 e quella di Poway, California nel 2018; la strage di ispanici compiuta nel 2019 a El Paso (23 morti e 23 feriti) e quella di Afroamericani a Buffalo l’anno scorso (10 morti e tre feriti fra gli avventori di un supermercato). Pochi mesi dopo, a novembre, un altro giovane sparava ad alzo zero sui clienti di un locale LGBTQ di Colorado Springs, uccidendone cinque prima di essere sopraffatto. Ognuno di questi atti aveva in comune un movente razzista di matrice reazionaria, ognuno è stato il gesto inconsulto di un giovane maschio “radicalizzato” da propaganda xenofoba e suprematista online. Questa nuova tipologia di stragismo indica quella che l’Atlantic ha di recente definito una “insurrezione subideologica” legata alla demagogia che attinge sempre più direttamente dall’odio per lo straniero ed il diverso, per gli “antiamericani” che tramano per sottrarre il paese ai “legittimi patrioti.” Un modo, se possibile, di rendere ancora peggiore una tragedia tutta americana

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