Non è una società per giovani, la nostra!

Intervista a Maurizia Franscini Cavalli

di Franco Cavalli

 

Dire che durante e dopo la pandemia il disagio giovanile è aumentato è ormai una banalità accettata da tutti. Quello che non si sa ancora e che talora si cerca un po’ di nascondere è quanto grave sia questo aumento, anche se a poco a poco dati molto preoccupanti stanno venendo alla superficie.

 

Alla clinica di Mendrisio dell’Organizzazione Sociopsichiatrica Cantonale (OSC) i casi di giovani al di sotto dei 18 anni ricoverati per gravi problemi psichici nel passato erano una rarità. Ora sono in rapidissimo aumento, ciò che rappresenta per la clinica un grosso problema. In Italia ci si preoccupa molto del moltiplicarsi di suicidi tra i giovani studenti universitari. Recentemente i Giovani Socialisti Svizzeri (JUSO) hanno pubblicato un comunicato sul tema intitolandolo “Una società che uccide”. Il problema sembra essere molto più grave per le ragazze che non per i ragazzi. Secondo dati di Santèsuisse ripresi in un lungo articolo dal Tages-Anzeiger (12.04.2023), per le ragazze tra gli 11 e i 18 anni le spese psichiatriche rappresentano ora il 20% di tutta la spesa sanitaria, con un aumento negli ultimi 4 anni di ca. il 40%. Nella globalità della popolazione queste spese rappresentano meno del 6% del totale. Il lavoro pionieristico su questo tema è stato realizzato e pubblicato più di un anno fa dal sindacato indipendente studenti ed apprendisti (SISA) nell’ambito della campagna “Scuola è salute mentale: parlarne non basta” che ha realizzato un’indagine sullo stato di salute mentale della popolazione studentesca nell’ambito della quale sono state valutate le risposte di ben 783 partecipanti, di cui il 71% di sesso femminile. La grande maggioranza frequentava la scuola media superiore, un 20% erano o alla scuola professionale o all’università. In quest’indagine il SISA aveva chiaramente dimostrato che ci fosse un’importante presenza di un forte disaggio psicologico, molto probabilmente in aumento rispetto al passato, soprattutto nella popolazione femminile (www.sisa-info.ch; sindacatosisa@gmail.com).

 

 

A questo proposito abbiamo posto alcune domande alla Dr. Maurizia Franscini Cavalli, caposervizio della clinica universitaria di psichiatria dell’infanzia e adolescenza di Zurigo (KJPP PUK).

 

Sicuramente le cause del fenomeno sono multifattoriali. È però possibile distinguere delle cause più importanti o addirittura dominanti che hanno condotto a questa esplosione?

Già precedentemente alla pandemia dovuta al Covid-19 si è osservato a livello internazionale un aumento del malessere nei giovani. Da una parte si ha una società sempre più difficile da gestire: il mondo del lavoro, le problematiche climatiche, l’esposizione costante all’interno dei social media. Dall’altra la difficoltà dei genitori a preparare in modo adeguato i figli ad affrontare le sfide della crescita all’interno della nostra società. I giovani di oggi imparano effettivamente meno che in passato ad affrontare i problemi da soli. Sin da piccoli sono costantemente accompagnati e sorvegliati da persone adulte. Hanno meno fiducia in sé stessi e quindi si sentono stressati più rapidamente.

 

Durante la pandemia vi è stato un aumento esponenziale delle urgenze psichiatriche in questa fascia di età. Per alcuni giovani, la pressione scolastica è aumentata notevolmente: nonostante le lezioni online e in generale la diminuzione delle ore a contatto con gli insegnanti gli obiettivi di apprendimento sono rimasti gli stessi. Molti giovani si sono trovati a dover affrontare aspettative, che non erano in grado di gestire. Un’ altro punto importante è sicuramente il forzato isolamento sociale durante il lock-down. Proprio nell’adolescenza il gruppo dei coetanei è fondamentale per potersi confrontare, discutere, sentirsi uniti nel mettere in discussione il mondo degli adulti. I social media sono sì un modo per tenersi in contatto, ma non sostituiscono gli incontri faccia a faccia. Al contrario, i giovani possono sentirsi ancora più soli nonostante o proprio grazie a Instagram o Tiktok.

 

Come si spiega il fatto che il fenomeno sia molto più pronunciato presso le ragazze che non nei maschi della stessa età?

Le ragazze dai 13 anni in su sono sempre state il gruppo di pazienti più numeroso. Tendenzialmente sono più sensibili e reattive al mondo esterno, hanno un grande senso di responsabilità e prendono più a cuore i problemi sociali. In una situazione di crisi su più fronti, come quella attuale, le ragazze reagiscano quindi in modo più accentuato.

Inoltre l’uso sproporzionato e costante delle piattaforme sociali costituisce per le giovani in particolare una fonte di grande pressione: postare immagini di sé stesse anelando ad una perfezione che non corrisponde alla realtà, misurare l’accettazione degli altri basandosi sul numero di amici su Instagram raggiunti o controllare costantemente quanti likes per i propri post si ottiene, conduce a un’ immagine di se stesse sempre più lontana da quella reale e paradossalmente ad una sensazione di inadeguatezza e di grande solitudine.

 

A questo proposito anche i ragazzi sono sotto pressione: alla ricerca di un’identità forte e di successo tendono a voler perfezionare il loro corpo sottoponendosi ad ore estenuati di palestra o controllando in maniera ferrea la propria alimentazione. I giovani maschi cercano però meno sostegno e tendono a voler risolvere i propri problemi da soli. Ai nostri servizi fanno ricorso anche per questo motivo più ragazze che ragazzi: sono tendenzialmente più in grado di chieder aiuto professionale.

 

All’interno di questo aumentato disagio, quali sono i sintomi predominanti, in particolare è aumentato il pericolo di suicidi?

I sintomi predominanti sono sintomi legati ad un aumentato stress: disturbi del sonno, della concentrazione, disturbi psicosomatici. Una diminuita autostima e quindi mancanti strategie nella gestione dello stress possono portare ad un isolamento sociale e a un assenteismo scolastico. Frequenti sono in seguito disturbi dell’ansia e disturbi depressivi. Spesso in concomitanza con autolesionismo, visto come autopunizione o come strategia maladattiva di sfogo del malessere. In una costellazione di malessere continua pensieri suicidali (non voler più vivere così) rischiano così di prendere il sopravvento. Il non voler più vivere in questo modo può portare poi ad un tentativo concreto di porre fine alla sofferenza.

 

A livello internazionale, ma soprattutto negli Stati Uniti, si osserva il fenomeno della cosiddetta “grande dimissione”. Giovani che di fronte ad una società troppo competitiva a condizioni di lavoro estremamente precarie, decidono di rinunciare ad ogni occupazione. Chiaramente si tratta di giovani post-adolescenziali, spesso dai 25 ai 35 anni. Il disagio nei minorenni è forse un’altra versione di un simile rifiuto di una società fredda e troppo competitiva?

Assolutamente, sono d’accordo. Gli adolescenti hanno però un vantaggio: rispetto ai giovani adulti, i minorenni sono ancora inseriti in una rete sociale, nella quale i genitori, gli insegnanti hanno la responsabilità di garantire loro un’assistenza adeguata e se necessario attivare un aiuto professionale mirato.

 

Cosa si può fare a livello preventivo e terapeutico per affrontare questa realtà preoccupante?

Prima di tutto sostenere il messaggio che il tema della salute mentale è parte integrante della nostra vita. Quindi parlare apertamente, senza tabu. Poi anche qui prevenire è più utile che guarire/curare.

 

All’interno della famiglia fondamentale è il messaggio dei genitori: per te ci sono, sono interessato a te, quello che fai mi importa, ho voglia di passare del tempo con te. I giovani devono sentire che i genitori non scappano quando la situazione diventa difficile. Anche se i giovani si comportano esteriormente come se non avessero bisogno dei genitori, questi rimangono le persone di riferimento più importanti.

 

La scuola ha poi un ruolo molto importante: è il luogo dove i giovani stanno la più parte del tempo; quindi, creare spazi di sensibilizzazione a temi inerenti alla salute mentale è sicuramente un buon approccio. Gli insegnati stessi devono venire sensibilizzati a proposito: riuscire ad individuare i primi segni di malessere, essere in grado di affrontare i problemi già nella fase iniziale in maniere corretta, fare i giusti interventi, può a volte interrompere la spirale negativa in cui si trova un ragazzo, una ragazza. A questo proposito la partecipazione ad un programma di primo soccorso della salute psichica per non professionisti, ENSA, può essere di enorme aiuto.

 

Quando però tutto questo non è sufficiente è importante fare capo a professionisti del campo. E qui, proprio quando potrebbe andarne di mezzo la vita è molto importante poter offrire un aiuto rapido. E questo è il mio appello anche alla politica e alle autorità competenti. Investire in questo campo è assolutamente sensato e lungimirante.

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