di Anna-Maria Merlo-Poli, corrispondente da Parigi
L’ultima crisi è esplosa poco prima della pausa estiva. In seguito all’incarcerazione preventiva di due agenti di polizia accusati di gravi violenze – il primo è il poliziotto che ha ucciso il giovane Nahel a Nanterre, morte all’origine della fiammata nelle banlieues e il secondo un agente della Bac di Marsiglia implicato nel pestaggio di un ragazzo durante la repressione della rivolta.
I sindacati dominanti delle forze dell’ordine hanno ingaggiato un aperto braccio di ferro con il governo, ricorrendo a una valanga di certificati malattia e al “codice 562”, il diritto a una “pausa” nell’attività, per protestare contro l’autorità giudiziaria accusata di imporre una “presunzione di colpevolezza” per i poliziotti. Per il capo della polizia, Frédéric Veaux, “prima di un eventuale processo, un poliziotto non deve essere messo in carcere preventivo”. Il ministro degli Interni, Gérald Darmanin, dopo qualche giorno di imbarazzato silenzio, ha detto di capire la “collera” e si è impegnato a prendere in considerazione le richieste di maggiori “garanzie” sull’uso della forza e solo a denti stretti ha ricordato che la legge si applica anche alle forze dell’ordine, che “non reclamano l’impunità ma chiedono rispetto”.
L’opposizione di sinistra è insorta, ha chiesto – inutilmente – le dimissioni di Darmanin e di Veaux. Il segretario del Ps, Olivier Faure, ha evocato “minacce di sedizione” (alcuni ufficiali dell’esercito, anonimi, avevano tempo fa già fatto riferimento a un possibile intervento in caso di eccesso di caos). Un comunicato dei sindacati Alliance e Unsa-Police, in piena rivolta delle banlieues, aveva espresso chiare minacce: siamo “in guerra” contro “orde selvagge” di esseri “nocivi” e pronti a “fare il nostro dovere”. Nel tentativo di mettere fine alla crisi, Emmanuel Macron ha ricordato che “nessuno è al di sopra della legge”, parole accolte negativamente dai sindacati di polizia che già avevano mal digerito la prima reazione del presidente alla morte di Nahel, giudicata all’Eliseo un “atto inesplicabile”, “ingiustificabile”. Persino l’Onu ha espresso inquietudine per la violenza della repressione delle proteste, dell’eccessiva utilizzazione di armi pericolose e a tecniche offensive di mantenimento dell’ordine, ci sono accuse ricorrenti di razzismo, molti casi specifici sono sotto inchiesta.
Governo e presidente appaiono paralizzati di fronte alla reazione della polizia. È come se “questa polizia”, spiegano gli esperti Christian Mouhanna e Olivier Cahn, avesse “convinto il governo che la sua tenuta dipende solo” dalle forze dell’ordine. La promessa elettorale di Macron, già del 2017, di riformare la polizia resta nel cassetto. Il potere è debole, senza maggioranza assoluta. Il programma di emancipazione, di progresso e di crescita promesso da Macron all’epoca della prima vittoria, nel secondo mandato sta naufragando nella poli-crisi in cui si dibatte la Francia, con l’aggravante di un sistema presidenziale troppo verticale, che non tiene conto dei corpi intermediari. Del percorso di adattamento di un “vecchio paese” all’evoluzione attuale del mondo appaiono in questo periodo soprattutto le imposizioni dolorose socialmente. La fiammata delle banlieues, con la partecipazione di giovanissimi in preda a uno spirito nihilista di distruzione dei beni comuni (incendi di scuole, strutture municipali, violenze anche personali contro dei sindaci), associata a una volontà consumista di accaparrarsi beni “di marca”, è stato un grido di dolore di ragazzi (le ragazze erano praticamente assenti) che si sentono lasciati indietro, senza punti di riferimento (anche la famiglia, con una forte presenza di nuclei monoparentali in questi quartieri, è in difficoltà, la religione non ha svolto nessun ruolo nella fiammata). Nei quartieri difficili si concentra la miseria, chi riesce – e sono comunque in tanti – abbandona la zona per spostarsi altrove e dare maggiori possibilità di riuscita ai figli, e così, malgrado gli investimenti per il rinnovamento urbano degli ultimi anni, i problemi restano irrisolti.
L’analista Jérôme Fourquet parla di un paese “arcipelago”, di “isole che si ignorano reciprocamente” e che non sanno – e troppo spesso non vogliono sapere – nulla degli altri, di “separatismi” che il governo non riesce a combattere. Macron e i suoi, descritti dagli oppositori come i difensori della secessione delle élites, della “casta arrogante” come direbbe Bourdieu – 10-15% della popolazione – ambiscono a rappresentare la “Francia che va bene”, più o meno un terzo del paese, aperto al mondo e europeista, che guarda al futuro con ottimismo senza troppe nostalgie per un passato idealizzato di una (ex) grande potenza che non è più tale. Ma mentre le ineguaglianze si intensificano e la povertà cresce (5 milioni di persone in Francia sotto la soglia di povertà), si diffonde il sentimento di declassamento, nazionale e individuale, su cui prospera l’estrema destra. 89 deputati del Rassemblement national nell’attuale legislatura non sono più solo un voto di protesta ma ormai anche di adesione ai temi estremisti, il rifiuto dell’immigrazione, l’ossessione della difesa dell’identità, che fomentano le “passioni tristi”, il risentimento, la paura, la chiusura.
Il ridimensionamento della potenza francese in Africa, dopo i putsch in Burkina Faso, Mali e Niger, l’emarginazione di Parigi con l’Aukus nel Pacifico, anche lo spostamento del baricentro europeo verso est con la guerra in Ucraina, tutto concorre a rafforzare l’idea che la Francia stia perdendo terreno. I media di estrema destra, ormai potenti grazie agli acquisti del miliardario Vincent Bolloré, alimentano le inquietudini, già esasperate dagli attentati (271 morti in Francia dal 2012 a oggi, con un apice nel 2015-16) e dalla crisi del Covid.
Nella fretta di arrivare a un adeguamento ai parametri liberisti per liberare le energie economiche necessarie per la transizione climatica, il governo di Elisabeth Borne non ha negoziato una giusta riforma delle pensioni, ma ha imposto un progetto percepito come una diminuzione dei diritti acquisiti. La reazione sono stati i lunghi mesi di proteste dell’inverno e primavera scorsi contro l’innalzamento dell’età pensionabile da 62 a 64 anni, senza voto all’Assemblée nationale (per paura di perdere, il governo ha fatto ricorso più volte all’articolo 49.3, mentre l’opposizione della coalizione di sinistra Nupes, non certa di poterlo battere, ha ceduto all’ostruzionismo). Malgrado la potenza di un movimento che ha organizzato 14 manifestazioni in più di 300 città e portato in piazza milioni di persone, il governo ha fatto passare la riforma con la forza. Si è scardinata così un’altra eredità del passato, quando diverse categorie di lavoratori avevano ottenuto dei “regimi speciali”, che oggi per un governo “modernista” non sembrano avere più legittimità in un mondo diventato individualista e sempre più concorrenziale. L’aristocrazia operaia di un tempo e i funzionari pubblici hanno lasciato spazio a un proletariato dei nuovi servizi, meno protetto. C’è la percezione che “la festa è finita”, riassume il sociologo Louis Chauvel, la consapevolezza che i figli staranno peggio dei padri, il rovesciamento della promessa dei “trent’anni gloriosi” del dopoguerra.
Dall’autunno del 2018, per molti mesi, la rivolta dei gilet gialli aveva portato in primo piano le difficoltà della classe media declassata. La scintilla dell’esplosione era stato un aumento di qualche centesimo del prezzo della benzina. Ma fin da subito è venuto in primo piano che il problema è “quello che resta per vivere”, dopo aver fatto fronte a tutte le spese obbligatorie, affitto, bollette, assicurazione, carburanti. Nei gilet gialli la categoria più rappresentata erano lavoratori del settore privato, free lance, indipendenti, partite Iva, anche in certi casi un proletariato salariato. Anche se la disoccupazione è calata, c’è meno occupazione ben pagata, l’industria ha perso 750mila posti di lavoro in dieci anni, il peso dell’industria nel pil è del 13,5%, contro il 25% in Germania (e quasi il 15% in Italia). Oggi, in questa fase di riorganizzazione della mondializzazione, l’Europa punta a una reindustrializzazione, a recuperare “sovranità”. La Francia è intrappolata nel paradosso dell’incompatibilità tra “salario e carrello della spesa”, riassume l’economista Lionel Fontagné (lo ha detto di recente il pdg di Stellantis, Carlos Tavares, al ministro delle Finanze, Bruno Le Maire: se produco le auto elettriche in Francia, saranno troppo care e le classi medie non avranno i soldi per comprarle).
Il politista Philippe Corcuff ha definito “confusionismo” questo momento politico, tra indebolimento della sinistra classica, crescita dell’estrema destra e incapacità della sinistra radicale a dare risposte che attirino i consensi. Mentre destra e estrema destra (Républicains, Rn e Zemmour) stanno gettando le basi per un’eventuale intesa dopo le presidenziali del 2027, l’alleanza elettorale della sinistra conclusa in fretta per le legislative del 2022 è entrata in acque agitate, malgrado il successo di 151 seggi. La Nupes (Ps, Pcf, Europa Ecologia e, in situazione dominante, France Insoumise con 75 deputati) non ci sarà alle elezioni europee del giugno 2024, ogni partito correrà da solo. Rivolta nelle banlieues, giudizio sulla polizia, attitudine in aula in occasione della discussione sulla riforma delle pensioni, intreccio ecologia-occupazione, ruolo del lavoro, laicità, Europa, a sinistra le posizioni divergono. La France Insoumise è isolata nel voler “conflittualizzare” tutto, con l’obiettivo di recuperare voti tra gli astensionisti prima e tra gli elettori di Le Pen poi. “L’idea che la France insoumise si fa del popolo non è conforme alla realtà” ha commentato di recente Olivier Faure, in relazione al rifiuto di Jean-Luc Mélenchon di condannare la violenza nelle rivolte delle banlieues. “Ci sono due sinistre, la loro e la mia” ha aggiunto il segretario del Pcf, Fabien Roussel.
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