di Michele Giorgio, corrispondente da Gerusalemme
Gli analisti spiegano i colloqui di metà agosto a Gaza tra rappresentanti del Jihad Islami e il partito Fatah dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) come una “rara occasione di contatto” tra fazioni ostili tra di loro, in un contesto di crescenti tensioni e di violenza nei Territori occupati.
Sono infatti svaniti subito i segnali di riconciliazione interna palestinese, in particolare tra il movimento islamico Hamas e Fatah, registrati dopo la distruttiva e sanguinosa offensiva militare israeliana (12 palestinesi e un soldato uccisi) di inizio luglio nel campo profughi della città di Jenin, ritenuta da Israele la roccaforte, assieme alla città vecchia di Nablus, della militanza armata palestinese nel nord della Cisgiordania. Di fronte alla disperazione di migliaia di civili colpiti direttamente dalle distruzioni per decine di milioni di dollari causate a strade e infrastrutture dall’azione di mezzi corazzati e droni e dalle incursioni casa per casa delle unità speciali israeliane, l’88enne presidente dell’Anp Mahmoud Abbas (Abua Mazen) a metà luglio si è recato in visita a Jenin. Oltre a manifestare solidarietà alla popolazione, Abbas ha cercato di lucidare l’immagine sua e dell’Anp in una città in cui a comandare sono i gruppi armati. Pochi giorni prima, due suoi stretti collaboratori e compagni di partito, Mahmoud al Aloul e Azzam al Ahmad erano stati cacciati via da centinaia di abitanti inferociti.
L’approccio della leadership palestinese nel trattare con l’occupazione israeliana è criticato dalla maggioranza dei palestinesi e dalle fazioni islamiste che ritengono la lotta armata “l’unica strada per la liberazione” e perciò godono di crescente popolarità per gli attacchi – alcuni dei quali mortali – che portano alle forze militari e ai coloni israeliani insediati in Cisgiordania. La continua cooperazione in materia di sicurezza di Abbas con Israele – mai davvero interrotta malgrado gli annunci fatti dalla presidenza palestinese negli ultimi anni – è contestata apertamente dalla popolazione, a maggior ragione dopo la campagna di arresti tra i membri della “Brigata Jenin” (Jihad) che i reparti speciali dell’Anp hanno avviato a Jenin – pochi giorni dopo la visita di Abbas – come chiedevano Israele e gli Stati uniti. Inoltre, mentre la popolazione palestinese punta il dito contro l’occupazione militare e i coloni israeliani e appoggia i gruppi armati (quasi l’80% degli intervistati secondo un recente sondaggio), esponenti delle forze di sicurezza dell’Anp, hanno attribuito l’instabilità e la violenza a Jenin e in altri centri abitati alla “difficile situazione socio-economica” che favorirebbe il reclutamento di giovani impoveriti da parte di Jihad e Hamas. Una tesi smentita da tanti. “Le gravi condizioni economiche, unite a un senso di disperazione e rabbia, sono la conseguenza dell’occupazione israeliana. Il fatto che sempre più giovani scelgano la via delle armi è il risultato del fallimento di qualsiasi prospettiva di soluzione politica del conflitto con Israele. Alcuni nell’Anp sembrano non comprenderlo a sufficienza e si aggrappano a tante motivazioni senza andare alla causa storica, ai pilastri del problema”, spiega l’analista e giornalista Nasser Hata.
Abbas, infatti, prosegue i suoi tour diplomatici senza risultati concreti. A metà agosto ha incontrato il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi e il Re giordano Abdullah II e prima i leader cinesi e i regnanti sauditi, sperando di spingere la “comunità internazionale” a rilanciare il negoziato israelo-palestinese bloccato da anni.
Il problema principale è il muro alzato dalle politiche governative israeliane in corso, tra cui piani di annessione di ampie porzioni di Cisgiordania ed espansione degli insediamenti coloniali che hanno condannato al fallimento la soluzione a Due Stati, Israele e Palestina. La rete di dinamiche regionali e il coinvolgimento di attori internazionali complicano ulteriormente il quadro. L’Amministrazione Biden è impegnata in un intenso sforzo diplomatico per persuadere la potente Arabia saudita a normalizzare le relazioni con Israele e a unirsi agli Accordi di Abramo promossi dall’ex presidente Donald Trump e che nel 2020 hanno portato quattro paesi arabi – Emirati, Bahrain, Marocco e Sudan – a stabilire normali rapporti diplomatici con lo Stato ebraico. Riyadh riassicura i palestinesi. Ha annunciato la nomina di un ambasciatore non residente in Palestina e, stando alle indiscrezioni, vuole che il premier Benyamin Netanyahu faccia dei passi concreti verso la realizzazione dei diritti dei palestinesi, prima di normalizzare le relazioni. Passi che l’attuale governo israeliano di estrema destra religiosa non ha alcuna intenzione di muovere. Allo stesso tempo tutti sanno che la chiave che aprirà ogni porta sarà la risposta di Washington alle richieste dell’Arabia saudita di cooperazione Usa alla realizzazione del programma nucleare civile e alla protezione stile Nato che l’Amministrazione Biden è chiamata a garantire ai regnanti del Golfo. Se la Casa Bianca accoglierà le richieste saudite, alcuni commentatori arabi prevedono che Riyadh sposterà in secondo piano il suo appoggio ai diritti dei palestinesi. Questo oscurerà ulteriormente la condizione di milioni di persone sotto occupazione militare.
Tutto ciò mentre le politiche del governo di destra estrema al potere in Israele danno ampia libertà di azione ai coloni in Cisgiordania, molti dei quali si sentono parte di una sorta di milizia parallela all’esercito nella repressione dei palestinesi. Negli ultimi otto mesi sono stati uccisi circa 230 palestinesi, in maggioranza in Cisgiordania, e oltre 20 israeliani. Spaventa la crescente violenza dei coloni che, tra le altre cose, ha costretto di recente centinaia di palestinesi dei villaggi di Baqaa e Ras al Tin ad abbandonare le loro comunità nell’Area C della Cisgiordania in cerca di zone più sicure, come riferisce l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA). Le famiglie raccontano di essere andate vie dopo l’aumento delle molestie da parte dei coloni dopo la creazione di nuovi insediamenti agricoli. I coloni si sono impadroniti dei pascoli appartenenti alla comunità e hanno piantato vigneti, riducendo l’area di pascolo necessaria ai pastori palestinesi per potersi sostenere. Già l’anno scorso, 100 palestinesi avevano lasciato Ras al Tin, adducendo motivi simili, seguendo ciò che avevano fatto 477 persone, tra cui 261 bambini, partite da Wadi al-Siq, Ein Samiya e Baaqa, Lifjim, Wedadie e Khirbet Bir al ‘Idd tra il 2022 e il 2023. Tre di queste comunità sono state interamente svuotate, mentre nelle altre rimangono solo poche famiglie. “E’ una nuova Nakba (Catastrofe) volta a cacciarci via dalla nostra terra, i coloni sono il braccio esecutivo di questa strategia”, avverte il ricercatore palestinese Musa Dabbous. “I media – prosegue – si agitano solo quando restano uccisi dei coloni e restano indifferenti di fronte ai corpi senza vita dei palestinesi”.
I coloni sono stati coinvolti in una media di 95 attacchi mensili contro i palestinesi nel 2023, secondo OCHA. In totale, centinaia di israeliani avrebbero preso parte negli ultimi sei mesi a 570 attacchi di vario tipo, di cui circa 160 hanno causato feriti e anche alcuni morti. Rispetto alla media mensile dello scorso anno di 71 assalti violenti contro palestinesi perpetrati da israeliani, quest’anno c’è un’ondata di tali eventi. I dati peraltro non includono i tantissimi casi di mera intimidazione, come quando i coloni inibiscono il movimento di agricoltori e pastori palestinesi. Le vicende più gravi hanno riguardato i villaggi di Huwara, Turmus Ayya e Umm Safa, dove le scorribande dei coloni si sono concluse con centinaia di case bruciate, distrutte e nel migliore dei casi danneggiate. La giornalista israeliana Amira Hass scrive che “il fenomeno della violenza dei coloni contro i palestinesi in Cisgiordania è gravemente sottostimato nelle statistiche esistenti e certamente nella copertura mediatica israeliana”. Questi attacchi, spiega Hass, “hanno l’obiettivo primario di usurpare terra palestinese privata e pubblica in Cisgiordania. Gli attacchi dei coloni possono raggiungere questo obiettivo più rapidamente dei metodi istituzionali utilizzati per accaparrarsi la terra”. Lo scorso anno, i coloni hanno commesso 849 assalti di vario tipo, di cui 228 provocando palestinesi feriti. Si tratta di due terzi in più rispetto al 2021, quando sono stati documentati 496 attacchi. Raramente queste violenze ed intimidazioni sono punite o sanzionate dalle autorità giudiziarie civili – i palestinesi pur vivendo nello stesso territorio sono soggetti alla legge marziale, ai tribunali militari – e non sorprende che circa 800 accademici e personalità pubbliche di ogni parte del mondo, inclusi Israele e la Palestina, abbiano firmato una lettera aperta che equipara l’occupazione israeliana della Cisgiordania all’Apartheid, redatta dal docente ed esperto della Shoa presso l’Università di Brown, Omer Bartov.
I firmatari affermano che l’occupazione che dura da quasi 60 anni ha dato origine a un regime di Apartheid. Israele, aggiungono in riferimento alle proteste contro la riforma giudiziaria avviata dal governo Netanyahu, non può dichiararsi una democrazia mentre i Palestinesi continuano a vivere in un sistema di Apartheid. Gli autori della lettera stabiliscono una correlazione diretta tra gli sforzi dell’esecutivo di destra per ristrutturare il sistema giudiziario e l’occupazione in corso. Questa connessione tra governance e occupazione, spiegano, ha provocato una convergenza di punti di vista tra vari settori della società, superando confini e sfondi. La lista dei firmatari include figure di spicco come Peter Beinart dell’Università di New York e Avrum Burg, ex presidente della Knesset e dell’Agenzia Ebraica e anche lo storico israeliano Benny Morris, che in passato negava che l’occupazione militare avesse prodotto l’Apartheid.
In questo quadro di eccezionale complessità, di crescente violenza e, denunciano i firmatari della lettera di Omer Bartov, di Apartheid palese, la popolazione palestinese non riesce a comprendere la politica portata avanti dall’Anp e dal suo presidente Abbas di restare fedeli agli Accordi di Oslo: firmati dal premier israeliano Rabin e del presidente palestinese Yasser Arafat a settembre di trent’anni fa con il fine – almeno nei desideri palestinesi – di creare le fondamenta dello Stato di Palestina, non hanno mai fatto passi in avanti e sono il risultato ovvio delle politiche di Stati uniti e Unione europea: parlare di dialogo e trattativa senza far alcun passo concreto per imporre alle parti in conflitto, a cominciare da Israele, il rispetto della legalità internazionale.
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