Hevalno per sempre: i cento anni del “Traité de Lausanne”

Beppe Savary-Borioli, comitato svizzero per la liberazione di Öcalan

 

Una grande manifestazione lo scorso 22 luglio a Losanna, sotto un sole splendente, ha riunito i Kurdi provenienti da ogni parte del mondo nel loro rifiuto del trattato che cento anni fa’ fu firmato proprio nella capitale vodese. 

Da vodese Doc mi vergogno che proprio Losanna si sia prestata nel 1923 a luogo dove furono celebrati i funerali del Kurdistan.

 

Questo “trattato traditore” ha infatti sancito la fine del Kurdistan, della sua storia e della sua cultura millenaria. I fertili terreni dei suoi territori e la ricchezza del sottosuolo che ai tempi si poteva solo indovinare, il petrolio, facevano e fanno tuttora gola alla Turchia. L’allora presidente turco Mustafa Kemal “Atatürk” si rivelò il gran burattinaio del trattato (orchestrando pure la sparizione dell’Armenia) al quale si prestarono Iran, Iraq e Siria (territori che nel 1923 erano in parte ancora in mano alle nazioni colonialiste), firmarono a Losanna un trattato a loro favorevole che cancellò il precedente “accordo” di Sèvres.

 

Il trattato losannese del 1923 segnò l’inizio del tradimento nei confronti del popolo kurdo, privato dalla sua terra, costringendolo alla persecuzione nelle nuove entità d’appartenenza o all’esilio nella diaspora kurda che a cent’anni di distanza si è diffusa nei cinque continenti. Agli oltre trenta milioni di Kurdi fu così negato il diritto ad una Patria, subendo una repressione che si spinse fino ad eliminarli fisicamente, come più volte accaduto nella storia recente. A questo proposito, va ricordato il massacro “Anfal” (letteralmente “Canaglia” riferito alle vittime kurdo-irachene e non agli autori arabo-iracheni), perpetrato nel 1988 da Saddam Hussein e da suo cugino Ali, detto “il chimico”, allora ministro di guerra iracheno. La strage costò la vita a 200’000 Kurdi, in gran parte donne e bambini, lasciando i sopravvissuti in condizioni di salute tremende.

 

Assieme al mio amico e compagno Jan van Aken, in occasione della nostra recente missione su richiesta di IPPNW Deutschland nel Kurdistan meridionale (Iraq) abbiamo potuto incontrare alcuni dei sopravvissuti, ancora oggi abbandonati al loro triste destino. Saddam già in precedenza fece largo uso di gas tossici – severamente vietati da una convenzione internazionale – nella lunga guerra Iran-Iraq (1980-88) con il tacito benestare dei suoi alleati USA. A fornirgli il materiale necessario per la guerra chimica furono delle ditte tedesche (della RFT, non RDA!), da sempre specialisti nella fabbricazione dell’Yperite, il gas tossico che porta il nome della città fiamminga di Ypern, dove fu impiegato per la prima volta durante la Prima guerra mondiale. Rappresentanti eletti della “Linke” nel Bundestag chiesero lo stanziamento di risarcimenti o l’assunzione dei costi delle cure alle vittime a carico delle ditte o dello Stato tedesco, ma la richiesta fu bocciata dal governo della Germania occidentale, definendole operazioni commerciali perfettamente legali. La micidiale Yperite venne lanciata dagli aerei iracheni durante l’“Operazione Anfal”, costringendo la popolazione kurda alla fuga di massa dai territori iracheni. Saddam ottenne così quanto sperato, la pulizia etnica dei Kurdi dai territori da loro storicamente abitati. Quando Saddam non fece più comodo agli ex-amici USA, Gb e alleati, fu attaccato, catturato e impiccato quale criminale di guerra assieme al cugino Ali.

 

Nella nostra missione per conto dell’IPPNW Deutschland, abbiamo raccolto numerosi indizi probatori che anche l’esercito turco di Erdogan stia impiegando gas tossici nella lotta contro le YPG e le YPJ (unità combattenti di donne e uomini del PKK), e la popolazione civile kurda. Ma Erdogan pare essersi messo al riparo da eventuali condanne internazionali grazie all’abile ruolo diplomatico da lui costruito nelle relazioni con Putin e la NATO, l’alleanza militare di cui la Turchia è uno stato membro.

 

Da questa storia non ne esce bene nemmeno la neutralissima Svizzera. Malgrado l’intervento presso il Dfae di un gruppo di parlamentari federali assieme a PSR/IPPNW, la Svizzera si è rifiutata di richiedere un’inchiesta ufficiale dell’OPCW (l’organismo internazionale di controllo delle armi chimiche) o del Segretariato generale dell’ONU, le uniche istituzioni internazionali che su richiesta di uno stato membro possono avviare delle indagini relative al nostro rapporto in cui si evidenziano gravi indizi sul possibile impiego di armi chimiche dell’esercito turco e dei suoi mercenari ex-ISIS contro i Kurdi.

 

Erigendosi ad angelo della pace nella guerra russo-ucraina, Erdogan sembra aver ottenuto un tacito nulla osta per il ricorso a qualsiasi mezzo (lecito e non lecito) nella sua guerra “privata” contro il Pkk. Con un’opinione pubblica focalizzata dall’interesse mediatico sull’Ucraina, Erdogan può inoltre spacciare per guerra al terrorismo la lotta contro i Kurdi, poiché il PKK si trova tuttora sulla lista delle organizzazioni terroristiche internazionali. Qualsiasi dubbio o critica espresso in Turchia sui metodi della guerra in Kurdistan viene prontamente tacciato di sostegno a un’organizzazione terroristica. La presidente dell’ordine dei medici turco, la coraggiosissima Prof. Sebnem Korur Fincanci, è finita in galera solo per aver esternato pubblicamente delle domande sul possibile impiego di armi chimiche dell’esercito di Erdogan. Troppo goffo e persino ridicolo è risultato il tentativo di voler attribuire al PKK un attentato a Istanbul, riconducibile probabilmente ai servizi segreti turchi, il temibile MIT. Servizi segreti turchi che, molto probabilmente (non avremo mai le prove), cercò di bruciare vivi i quadri dell’organizzazione kurda in Europa e attivisti internazionali nel corso di un viaggio di solidarietà su una nave tra Grecia e Italia avvenuto lo scorso anno. La tragedia fu evitata solo grazie al naso fine di una passeggera che si accorse immediatamente dell’odore di bruciato, allertando l’equipaggio. Del viaggio e dell’incendio, ne abbiamo già raccontato in una precedente edizione dei nostri Quaderni.

 

Quando nel museo dedicato alla memoria del massacro “Anfal” vidi esposto il pezzo di corda con cui fu impiccato “Ali il chimico”, non potei fare a meno di augurarmi che un giorno un’altra corda possa essere esposta in ricordo del novello Sultano che pensa che tutto gli sia permesso, compresi i peggior crimini “di guerra e di pace”.

La lista dei tradimenti a scapito dei Kurdi è troppo lunga per elencarli tutti in questo articolo. Una recente doppia pagina de “Le Monde Diplomatique” non poteva essere più esaustiva. Mi limito quindi a ricordare alcuni fatti.

 

Il cancelliere Kohl, quel buon Helmut “padre della riunificazione germanica” e padrino politico “della ragazza dall’Est” Angela Merkel, ricompensò i suoi amici governanti turchi facendo iscrivere il Pkk sulla lista delle organizzazioni terroristiche. Il Pkk, che da sempre rifiuta i metodi della lotta terroristica, sconfisse sul campo di battaglia l’ISIS al costo di molte vite umane, riuscendo tra le altre cose a liberare le donne e bambini Yezidi, catturate stuprate e vendute sul mercato degli schiavi dagli islamisti, arrivando appena in tempo a sostituirsi ai Peshmerga dell’iracheno Barzani in fuga di fronte ai seguaci dell’Isis. La durissima lotta corpo a corpo delle YPG e YPJ che li portò alla vittoria sull’ISIS, è stata ricompensata dalla comunità internazionale mantenendo la loro iscrizione sulla lista delle organizzazioni terroristiche!

 

Il clan Barzani rappresenta da decenni una grossa spina nel fianco del popolo kurdo. Interessati più ai loro affari personali che alla causa kurda, i Barzani e il loro “partito” KDP (il partito democratico del Kurdistan) controllano una parte della zona “autonoma” kurda in Iraq insieme al clan Talabani, fondatori prima del KDP (la storia iracheno-kurda è piena di sorprese) ma in seguito del loro partito PUK (Unione Patriotica del Kurdistan), amministrano le loro rispettive zone grazie alla fragile tregua tra i due clan. I Barzani sostengono la politica di Erdogan vietando a qualunque potenziale testimone l’accesso alle zone di combattimento del PKK e dei suoi alleati nel sud della Turchia e nel Rojava. L’attuale presidente dell’Iraq del clan dei Talabani e il ministro degli Affari Esteri dei Barzani, si preoccupano unicamente di spartirsi le ricchezze del Kurdistan iracheno.

 

Infine, voglio concludere questo piccolo riassunto della “questione kurda” nominando la figura kurda più importante degli ultimi decenni, autore del risveglio kurdo: Abdullah “Apo” Öcalan. Uomo carismatico, a giusta ragione può essere considerato il vero leader dei Kurdi. L’utopia di una Confederazione democratica e socialista nel Medio Oriente da lui teorizzata – da anni sperimentata nel Rojava – preconizza Kurdi e altri popoli della zona con pari diritti e opportunità per tutti gli uomini e donne abitanti del territorio, spaventa i potentati della zona, siano essi turchi, siriani, iraniani, arabi iracheni o israeliani. Un progetto sociale e politico inviso ai poliziotti del mondo, come piace agli USA identificarsi, non gradiscono poiché li priverebbe della loro influenza in una zona ritenuta strategica per vari motivi, dal petrolio alla posizione geografica.

 

Non deve dunque meravigliare che la Segretaria di Stato americana, Madeleine Albright, con il benestare dell’allora presidente Bill Clinton, offrì Öcalan ai governanti turchi. Dopo una lunga caccia in molti paesi condotta dalla CIA, MIT e Mossad sotto la ferrea direzione della Albright, nel 1999 Öcalan finì in trappola in Kenia per essere estradato al governo turco. Da ventiquattro anni Öcalan è detenuto sull’isola prigione di Imrali, in totale isolamento in violazione a tutte le convenzioni internazionali sul trattamento dei prigionieri, firmate anche dalla Turchia.

 

I Kurdi, riferendosi al loro leader, commentano amaramente: “Potranno imprigionare il corpo di Apo, ma non il suo spirito”. Come Gramsci, anche Öcalan ha comunicato dalla prigione – fino a quando gli fu possibile – attraverso degli scritti al suo popolo. Un popolo che non ha mai cessato di rivendicarne la liberazione, appoggiata da numerose persone e organismi internazionali per i diritti umani. Ma la sua messa in libertà non è mai avvenuta. Essa potrebbe avere degli effetti analoghi in Medio Oriente a quanto conobbe l’Africa australe quando fu liberato Nelson Mandela dalla prigione di Robben Island.

 

In tutto il mondo i Kurdi non hanno mai smesso d’invocare a gran voce la liberazione, provocando la continua repressione nei loro confronti. L’ultimo esempio di una lunga serie è quella avvenuta nell’Iran, dove l’assassinio di una giovane attivista kurda della Polizia per la moralità del regime degli Ayatollah fu all’origine di una rivolta diffusa soprattutto tra i giovani, non soltanto kurdi, che da ormai due anni mette in scacco il regime iraniano, la cui risposta è una feroce repressione con tanti giovani uccisi dai boia dello Stato Islamico.

 

Da lì è nato il grido da battaglia delle donne kurde, ripreso anche dagli uomini, kurdi e non, che si riferisce al Confederalismo democratico e al ruolo delle donne nel risveglio kurdo. Un grido che risuona ormai nel mondo intero: “Jin, Jiyan, Azadî!”: Donna, vita, libertà!

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