Socialdemocrazia, quo vadis?

 L'editoriale - Quaderno 24

 

A seguito dei continui insuccessi elettorali, negli ultimi anni sono stati innumerevoli gli articoli che hanno proclamato “la morte della socialdemocrazia”. 

Da un po’ di tempo sembrerebbe però che l’aria stia cambiando: in una serie di paesi, dalla Finlandia alla Germania, personalità giovani e profilate a sinistra hanno preso o stanno prendendo il controllo di diversi di questi partiti, promettendo un marcato cambiamento di rotta. 

 

Per cercare di capire cosa sta capitando, vale probabilmente la pena di fare, anche se semplificando al massimo, un… gran balzo indietro.

 

Senza voler tornare al “peccato originale” della socialdemocrazia, quando nel 1914 la SPD votò i crediti a sostegno della mattanza della prima guerra mondiale, si possono prendere come punto di partenza i primi anni ’80. Dopo i “trenta gloriosi”, periodo di sviluppo dello stato sociale ma anche di grandi compromessi con i “signori del vapore”, i partiti socialdemocratici (e anche diversi tra quelli comunisti) si trovarono completamente spiazzati dalla controrivoluzione neoliberale di Thatcher e Reagan. La confusione aumentò ancora con la caduta del muro di Berlino, quando non solo l’opinione pubblica, ma anche molti dei dirigenti socialisti accettarono la tesi della fine della storia, secondo cui non c’era ormai più alternativa al capitalismo. Quando gli elettori, spaventati dalla durezza delle politiche di tipo thatcheriano, portarono al potere i leader di “sinistra” (da Blair a Clinton, da Schröder a D’Alema), questi ultimi non seppero far altro che continuare – e anzi spesso approfondire – le controriforme neoliberali dei loro predecessori.

 

Non può quindi meravigliare che buona parte delle masse popolari, tartassate da capi di governo “di sinistra”, sia poi passata con armi e bagagli alla destra xenofoba e volgarmente populista. Senza questo tradimento dei caporioni dei partiti socialdemocratici, oggi non avremmo Trump, Le Pen, Salvini e l’AfD.

 

Ora il vento comincia forse a soffiare in un’altra direzione. Apripista sono indubbiamente stati Corbyn e Sanders, che con i loro programmi hanno chiaramente rotto con le politiche centriste dei loro predecessori. Al di là dei risultati elettorali (si veda per quanto riguarda la Gran Bretagna questo articolo) entrambi hanno scatenato un’ondata d’entusiasmo nei giovani, tanto che appare ormai evidente che la posizione politica dei cosiddetti millennials è molto diversa da quella delle generazioni precedenti.

 

Quest’ondata sta ora investendo anche l’Europa occidentale: dalla più giovane primo ministro “più a sinistra” in Finlandia, al duo che ora controlla l’ormai sbrindellata SPD in Germania. È per intanto difficile capire se si tratta più di apparenze che di cambiamenti reali, anche perché nei vari programmi le contraddizioni non mancano. Particolarmente interessante è quanto sta avvenendo in Spagna, dove la formulazione di quello che è già stato definito come “il programma di governo più a sinistra in Europa” è avvenuta solo grazie ad una serie di ultimatum con cui Podemos è riuscito a spingere a sinistra il Partito socialista.

 

E che dire della Svizzera, dove, non da ultimo, per la struttura fortemente federalista e il fatto che circa la metà del proletariato non ha diritto di voto, i cambiamenti avvengono più lentamente che altrove? Durante la Guerra Fredda, PSS e sindacati sostennero a fondo le posizioni politiche del grande capitale. Fu solo la generazione del ‘68 che, grazie anche ad importanti movimenti popolari, riuscì a smarcare la posizione socialista da quella degli altri partiti politici.

 

La direzione del PSS ama definire il partito svizzero come “il più a sinistra tra i partiti socialisti dell’Europa occidentale”. Se ciò in parte è vero (si pensi al ricorso ai referendum per bloccare alcune delle derive neoliberali peggiori), bisogna anche sottolineare che il PSS si è macchiato di alcune colpe particolarmente gravi, anche senza voler risalire al rifiuto della pensione popolare negli anni ‘70. Pensiamo in particolare al non aver saputo (e spesso voluto) bloccare la privatizzazione, almeno parziale, delle regie federali. O alle successive revisioni della LAMal, trasformata ormai in un meccanismo al servizio dei bonzi delle casse malati e di sfruttamento sempre più marcato dei pazienti. E non dimentichiamoci degli scivoloni sui vari progetti pensionistici di Berset, o della continua volontà di aderire al progetto neoliberale dell’UE.

 

È molto probabile che il prossimo congresso di inizio aprile nomini alla co-presidenza Wermuth e Meyer, un duo giovanile e marcatamente di sinistra, già leader degli JUSO – quest’ultimi ormai abituati a realizzare iniziative popolari chiaramente anticapitaliste e ritornati a formare i loro quadri sui testi marxisti, tanto che vi è confluito anche il gruppo giovanile trotzkista più agguerrito, quello della Funke. La sfida rimane però molto difficile: il PSS è un caravan serraglio, che va da Ziegler sino a consiglieri di stato tipo Mario Fehr a Zurigo, situati ben più a destra della moribonda ala radicale del PLRT. E finora il PSS ha sempre evitato di affrontare il nodo centrale, cioè quello di come disciplinare i vari esponenti negli esecutivi, a partire dal Consiglio Federale, obbligandoli a seguire le linee decise nei congressi, dove predomina di solito una base parecchio più a sinistra dei dirigenti.

 

Ma da noi, e non da oggi (si veda quanto abbiamo riportato su Guido Pedroli nel Quaderno 22) il PS è confrontato con un problema tipicamente cantonticinese: se oltre Gottardo si tratta di disciplinare i rappresentanti negli esecutivi, qui da noi il problema è sempre stato quello del controllo quasi totale del partito da parte del Consigliere di Stato. E questo nella pratica continua: senza l’approvazione di Bertoli dell’ennesima riforma fiscale a vantaggio dei ricchi e delle imprese che fanno lauti profitti, avremmo sicuramente evitato la drammatica sconfitta del fallito referendum. E, pensando a quali potrebbero essere i candidati di punta del PS per le elezioni del Consiglio di Stato nel 2023, potrebbe anche darsi che la situazione peggiori. E di molto.

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