Asia centrale: una polveriera sempre più pericolosa

(14 febbraio '22) di Franco Cavalli

 

Come Asia centrale si definisce quella regione che va dalle steppe siberiane a nord sino al confine afghano a sud e trasversalmente dal Mar Caspio sino al confine cinese. È stato spesso detto che chi controlla l’Asia centrale, controlla il mondo. Un’affermazione forse un po’ esagerata, ma che dà l’impressione dell’importanza geopolitica di questa regione.

Già al tempo dei Romani aveva rappresentato il punto di contatto tra l’Impero Celeste e i mercanti dell’Impero Romano. Attraverso l’Asia Centrale transitava poi la Via della Seta, che perse la sua importanza solo dopo l’islamizzazione violenta della regione.

 

Nessuno meglio di Peter Hopkirk ha saputo riassumere, nella sua opera fondamentale (Il grande gioco, Adelphi, 2004, recensito sul Quaderno 8), l’importanza dell’Asia centrale, descrivendo quanto era capitato nel XIX e all’inizio del XX secolo nella lotta tra l’Impero Britannico e quello Zarista per il controllo di questa regione, che apriva le porte dell’Afghanistan, e da lì lo sbocco sul subcontinente indiano. Nonostante le continue rivolte, in gran parte sobillate da agenti britannici, nella seconda metà del XIX secolo l’Asia centrale passò definitivamente sotto il controllo zarista, che lasciò però completamente inalterate le strutture feudali e clanistiche attorno alle quali era organizzata la società.

 

Fu solo con l’avvento dell’era sovietica che intervennero cambiamenti fondamentali, tra cui la scolarizzazione obbligatoria, la rivalutazione del ruolo della donna, la laicità delle strutture statali, eccetera. Nonostante la retorica comunista, diverse strutture di potere rimasero però in parte inalterate, soprattutto a livello personale e famigliare. Così quanto nel 1991, dopo la dissoluzione dell’Unione sovietica, la regione fu divisa in cinque stati indipendenti (Turkmenistan, Tagikistan, Uzbekistan, Kyrgyzstan, Kazakistan) furono in gran parte i segretari regionali del PC che si trasformarono in presidenti, spesso con poteri dittatoriali ancora più estesi di quanto fosse stato il caso prima. Tipico è il caso di Nazarbayev, primo segretario del PC in Kazakistan, che ne divenne poi il padre padrone incontrastato sino a poco tempo fa.

Lui e la sua famiglia durante questi 30 anni hanno accumulato una ricchezza straordinaria: basti pensare al famoso episodio della villa sul Lago Lemano comperato da una delle sue figlie per quasi 100 milioni di euro.

 

 

Impressioni personali

 

Negli ultimi dieci anni ho visitato per varie ragioni la maggior parte di questi paesi. Tra le tante impressioni riportate, ne sottolineo solo due. Dappertutto, anche a seguito della scomparsa dell’educazione laica di tipo sovietico, era evidente la spinta versa un Islam più fondamentalista, in una regione dove questa religione era sempre stata di tipo piuttosto moderato. Ho sentito spesso affermazioni del tipo, da parte di persone di una certa età, «per noi la religione era più un’usanza per matrimoni, funerali, eccetera. I nostri figli invece sono sempre nelle moschee e parlano solo di Maometto!». Non è quindi un caso che sia l’ISIS che altre bande terroristiche islamiche abbiano ampiamente reclutato in questi paesi. Questo anche perché queste repubbliche post-sovietiche (salvo il Kazakistan, che è un caso a parte grazie ai suoi enormi giacimenti di petrolio e di gas), sono molto povere e oltretutto scuole, ospedali ed altre strutture comunitarie funzionano molto male o sono addirittura scomparse. Dappertutto spuntano invece moschee, perché ad investire in questi paesi sono soprattutto le monarchie del Golfo e la Turchia, che naturalmente fanno di tutto per radicalizzare l’islam locale. Questa è la ragione per cui molti professionisti locali con cui ho avuto contatto, mi hanno sovente detto «la cosa migliore per noi sarebbe riavere l’Unione Sovietica».

 

In tutti questi paesi ho sempre avuto l’impressione che la società fosse una polveriera pronta ad esplodere: difatti non si contano le rivolte piccole o grandi scoppiate in questi ultimi vent’anni, oltre agli scontri armati in zone di confine, soprattutto tra Uzbekistan e Kirghizistan e fra quest’ultimo e il Tagikistan. L’impressione che tutto potesse scoppiare da un momento all’altro era particolarmente forte in Kazakistan, anche perché a fronte di enormi ricchezze potenziali (petrolio, gas) e di investimenti soprattutto occidentali molto importanti, non da ultimo nelle criptovalute, la stragrande maggioranza della gente vive in condizioni miserevoli.

 

Personalmente non ho quindi dubbi che l’interpretazione giusta dei recenti tragici avvenimenti in Kazakistan, anche sulla base delle testimonianze pubblicate nel Manifesto e da quanto riferito dal nostro corrispondente a Mosca Yurii Colombo («In Kazakistan, protagonista è la classe operaia», apparso sul nostro sito l’8 gennaio) sia che il tutto è scoppiato come protesta operaia, dopo l’annuncio di un forte aumento del prezzo di tutti i combustibili nelle zone petrolifere, dove già una decina di anni fa c’erano state manifestazioni represse nel sangue. Le proteste sono poi dilagate a macchia l’olio in tutto il paese e si sono concentrate soprattutto ad Almaty, che una volta si chiamava Alma Ata, centro economico del paese. Ben presto però la rivolta è stata monopolizzata da lotte tra i clan mafiosi che dominano il paese e tra diversi oligarchi, i quali probabilmente si sono serviti anche di bande di terroristi islamici recentemente rientrati dall’Afghanistan. Molto meno realistiche sono invece le interpretazioni di chi vuole vedere negli avvenimenti un nuovo episodio delle «rivolte colorate», finanziate e dirette dall’occidente. Non da ultimo perché in questo momento gli Stati Uniti sono in ben altre faccende affaccendati e non hanno ancora digerito la disfatta in Afghanistan. Certo che poi la Russia – legata da un patto militare ed economico alla maggior parte di questi paesi – ha mandato, su richiesta del nuovo presidente kazako, le sue truppe a presidiare gli aeroporti ed altri punti strategici, mentre la Cina – preoccupata probabilmente soprattutto per i suoi progetti della «Nuova Via della Seta» e per l’importante minoranza (circa 3 milioni di persone) kazaka in Xinjiang – ha fatto di tutto per assicurare la stabilità.

 

È quindi probabile che dopo lo shock iniziale, anche i capitalisti svizzeri – che negli ultimi anni, grazie anche all’aiuto dei politici che li rappresentano, hanno fatto di tutto per accaparrarsi almeno una parte della torta kazaka – ritorneranno presto a banchettare sul posto, alla faccia delle centinaia di morti rimasti sul terreno. Ma come si sa, «Pecunia non olet»…

D’altra parte sono sicuro che di questa polveriera sentiremo ancora parlare.

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